EINSTEIN, LE UPANIṢAD E LO YOGA
settembre 25, 2020
di Kenan Digrazia
Introduzione di Marco Sebastiani
Se come noi siete stanchi di articoli che accostano la fisica quantistica o la teoria della relatività alla sfera di una non meglio identificata spiritulità, spesso in salsa new age, seguiteci nel viaggio tracciato oggi da Kenan Digrazia.
Un'altra tendenza cui assistiamo ai nostri giorni, e circa la quale sarebbe opportuno fare chiarezza, è quella, da parte dei cosiddetti nazionalisti Indù o tradizionalisti indiani, di voler far risalire sempre e comunque le innovazioni cardine della scienza moderna alle scritture di area vedica, creando a volte collegamenti interessanti, a volte teorie imbarazzanti per chi le propone.
E' infatti una dote rara aver afferrato concettualmente le regole fisiche alla base dell'Universo e in particolare la teoria della relatività, così come la meccanica quantistica e sapersi orientare tra onde e particelle, ma soprattutto saper rendere questi argomenti accessibili ai non addetti ai lavori. Sono divenute proverbiali le parole di Richard Feynman, premio Nobel per la fisica nel 1965 per l'elaborazione dell'elettrodinamica quantistica e grande divulgatore scientifico:
"Penso di poter affermare che nessuno capisce la meccanica quantistica.“
Riteniamo inoltre molto interessante osservare come scienza e religioni si osservino e si influenzino reciprocamente molto più di quanto si è soliti credere. Per questo motivo è un punto di vista non frequente ed estremamente utile quello evidenziato nell'articolo di Kenan Digrazia, fisico dell'Università di Catania ed appassionato di storia delle religioni e delle scritture induiste, a cui lasciamo ora la parola, con l'augurio che questi suoi approfondimenti possano diventare in futuro una rubrica fissa su Yoga Magazine Italia.
Molti potrebbero domandarsi cosa abbia a che fare il geniale fisico tedesco con le Upaniṣad e lo Yoga. Cominciamo subito col precisare che, oggigiorno, su internet si trova un po' di tutto: vi sono gli accostamenti più disparati tra meccanica quantistica ed intuizione della non-dualità (advaita), passando per analisi del concetto della risonanza cosmica, śabda, e così via. Tuttavia, molti di questi “articoli” sono spesso viziati da sensazionalismi e da volgarizzazioni, che determinano l'effetto di travisare la materia che si desidera esporre, risultando in un fraintendimento concettuale fatale per il lettore, ed anche per lo stesso scrittore. Le ragioni di un simile fenomeno sono indubbiamente numerose e complesse, da ricercarsi, qualora esso accada in buona fede, principalmente nella mancanza di preparazione e di approfondimento delle discipline da collegare (fisica ed indologia), quale risultato della “obesità di informazione” cui siamo sottoposti, creante un falso senso di competenza. Non è tuttavia nostra intenzione prendere in esame tali motivazioni: con questo articolo, che speriamo essere il primo di una proficua serie, desideriamo liberare il campo della comunicazione tra queste due forme di conoscenza con la stessa dignità da parecchi punti “nebulosi”, ribadendo al contempo le reali e profonde riflessioni che la fisica moderna, con le sue scoperte, suscita in tutti gli appassionati e conoscitori della scienza vedica. Benché non desideriamo abbandonare il rigore tematico che l'onestà intellettuale ci impone, cercheremo comunque di esporre, per quanto possibile, alcuni concetti che risulterebbero difficili ad un lettore digiuno di fisica attraverso spiegazioni di più immediata comprensione.
Cominciamo dunque col trattare in sintesi la tematica dei lavori di Albert Einstein. È noto che il fisico di Ulm fosse un assiduo lettore della Bhagavad Gītā, di importanza capitale per tutti coloro che praticano la via dello Yoga in ogni sua declinazione. L'interesse degli scienziati tedeschi di inizio '900 per le opere indiane non si limita di certo al solo Einstein: Niels Bohr, Werner Heisenberg ed Erwin Schrödinger, ad esempio, tra i padri fondatori della meccanica quantistica, consultavano regolarmente le Upaniṣad. Robert Oppenheimer, esponente di spicco del progetto Manhattan ed il primo a comprendere l'effetto tunnel, cita più volte la Gītā nelle sue interviste e, in più di un'occasione, si spinse ad affermare: «l'accesso ai Veda è il più grande privilegio che questo secolo [il ventesimo] possa rivendicare, su tutti i secoli precedenti». Gli orientalisti tedeschi dell'Ottocento, con le loro traduzioni, assieme a molti filosofi e teosofi, contribuirono a diffondere nei vari ambienti culturali le opere dell'induismo.
La strabiliante precisione “scientifica” (per l'epoca) delle affermazioni dei Veda è, a tutt'oggi, pienamente riconosciuta. Due soli esempi, tra i numerosi: il Sole sospeso nello spazio interplanetario, asse (di rotazione) immobile per tutti i pianeti (Ṛg Veda I, 35, 2 e Ṛg Veda IV, 13, 4-5) e la velocità della luce espressa con incredibile precisione nel commento di Sāyaṇa (vissuto nel XIV secolo) alla mantra Ṛg Veda I, 50, 10, dove egli scrive testualmente: «... [O Sole,] mi inchino a voi, che giungete a noi in 2.202 yojana in mezzo nimesha»; usando i fattori di conversione comunemente accettati per queste unità di misura di spazio e di tempo, si ottiene una velocità compresa tra i 299 e 310 mila km/s, che si discosta di pochissimo da quella oggi nota senza errore: 299.792,458 km/s. Un risultato che continua a stupire e ad affascinare i fisici moderni, che non comprendono come sia stato possibile esprimerlo con una simile accuratezza. Naturalmente, in questa sede non è nostro obbiettivo proporre alcun tentativo di spiegazione dei motivi della profondità della conoscenza indica: l'unità della vera Sapienza è fuori discussione in ogni sincera visione, tanto religiosa, quanto scientifica. Non deve meravigliare che numerose intuizioni di Einstein trovino poi fondato riscontro nelle Upaniṣad e negli Yoga Sūtra di Patañjali. Ma andiamo con ordine.
Nel suo articolo del 1905, Sull'elettrodinamica dei corpi in movimento, Einstein sancisce che la misura del tempo per mezzo di segnali luminosi possa dare un nuovo fondamento alla fisica. In poche parole, immaginate di disporre di un cronometro che si attiva proprio quando un certo segnale laser raggiunge una fotocellula collegata. Allora, se facciamo percorrere alla luce una lunghezza fissa a nostro piacimento, possiamo sicuramente misurare il tempo, a patto, però, di immaginare la costanza della velocità della luce in tutti i sistemi di riferimento. Da qui venne uno dei due postulati alla base della teoria della Relatività Speciale, ovvero che la velocità della luce nel “vuoto” sia costante e la massima possibile. Lo scorrere del tempo è determinato dalla velocità di propagazione dell'informazione, che fa sì che gli eventi si influenzino tra di loro: ciascuno di noi fa esperienza di questo, ad esempio, con il suono. Se un aereo supersonico passa sopra la nostra testa, allora, dopo un certo lasso di tempo, udremo il boato, e, magari, proveremo un piccolo spavento. Maggiore è la distanza dall'aereo, più tempo ci vorrà perché all'evento “passaggio dell'aereo” segua l'evento “sussulto cardiaco”; fino ad arrivare ad una distanza oltre la quale non udremo nulla e non vi sarà rapporto di casualità tra i due eventi: se ci siamo spaventati, sarà di certo per un'altra ragione, magari una pietanza dimenticata nel forno. Una cosa simile accade per la luce nell'Universo: è chiaro, dunque, che lo spazio ed il tempo degli eventi divengono interrelati in un unico concetto: lo spazio-tempo. Ebbene, questa intima connessione della dimensione spaziale con quella temporale era stata intuita già nella Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad (III, 8) del IX secolo a. C! In essa, il grande Yājñavalkya, interrogato a tal proposito dalla filosofa Gārgī Vācaknavī, sancisce che spazio e tempo sono due aspetti complementari dell'unica manifestazione della realtà, satya: «quello che è chiamato spazio è intessuto nel tempo come sua trama ed ordito». Non bisogna pensare allo spazio-tempo come ad un concetto soggettivo: si tratta di associare ad ogni evento quattro coordinate, tre spaziali ed una temporale, misurabili con opportuni procedimenti. Tra scienza e metafisica sussiste dunque una buona dose di reciproca influenza, ma senza mai dimenticare l'autonomia dei singoli campi di ricerca. Il tempo della coscienza non è il tempo quantizzato della fisica, sebbene entrambi gli aspetti siano utili nell'avanzamento della nostra comprensione del Tutto.
Un altro aspetto di grande importanza è costituito dalla Luce, che avrà un approfondimento dal punto di vista della fisica quantistica in un altro articolo. Le problematiche relative a ciò che noi genericamente chiamiamo “luce” in fisica sono notevoli e contengono una buona dose di convenzionalità. Il problema è antico, tanto da richiedere precisazioni linguistiche, come accade nel caso del sanscrito, ove si discernono pratibhā, lo splendore (luce rivelata dalla sua interazione con la materia ordinaria), rocana (la luce dei corpi celesti) e jyotis, luce in sé, dal significato ontologico e spirituale. Il premio Nobel P. W. Bridgman afferma che la luce acquista realtà fisica in funzione degli oggetti che essa illumina; «non significa altro che cose illuminate» (da La logica della fisica moderna). Possiamo rivelarne le proprietà solo in seguito ad una sua interazione con la materia costituente la nostra strumentazione, ma nulla possiamo dire su cosa avvenga nello spazio letteralmente buio che separa la sorgente dal rivelatore. Liricamente, potremmo affermare con il commento di Raimon Panikkar a Ṛg Veda IV, 13 che «la luce splende sempre al di fuori delle tenebre; altrimenti non splenderebbe». Se pensiamo alla luce come ad un meccanismo ondulatorio di trasporto dell'energia, allora, la celeberrima equazione di Einstein E = mc2 conferma la struttura “luminosa” della Realtà che emerge da Veda ed Upaniṣad. In Ṛg Veda I, 115, 1 si dice che l'energia luminosa simboleggiata nel Sole è «principio vivente (ātman!) di ogni cosa»; tale affermazione acquista ora nuovo valore con le conseguenze della Relatività Speciale, suggerendo che la luce non possa essere localizzata o indicata come “cosa”, ma che essa è la struttura interna della realtà stessa. La “materia” è luce cristallizzata. Se accettiamo la visione operazionista di Bridgman, potremmo dire che la grandezza “massa” e la grandezza “energia” non esistono più come concetti fisici distinti, ma che esistono solamente definiti procedimenti di misurazione che portano a rivelare un risultato che chiameremo ora massa, ora energia, a seconda della precisa interazione della strumentazione con il fenomeno in sé. Le Upaniṣad approfondiscono tali riflessioni, si vedano, ad esempio, la Maitrī-Upaniṣad VI, 3 (“Brahman è Luce”), la Chāndogya III, 17, 7 e la Śvetāśvatara V, 4 (“come la luce pervade tutto, così l'Uno, Dio, governa su tutta la creazione”).
Tutto ciò ci conduce alla visione relazionale della realtà: tutto è interconnesso. Non a caso, Einstein sente l'esigenza di giungere ad un postulato più generale per l'unità del cosmo: approdiamo alla Relatività Generale, la cui base fondante afferma che tutte le leggi fisiche siano invarianti in forma in tutti i sistemi di riferimento. Non più, quindi, solo la velocità della luce, ma anche la gravità che plasma lo spazio-tempo come fosse un telone che si incurva. Per fare ciò bisogna abbandonare gli enti statici, quali sostanza, massa, … , per approdare all'antica concezione relazionale della realtà, esposta già nel I millennio a. C. attraverso il simbolo del Puruṣa (presente in Veda e Upaniṣad), cioè che l'Universo, analogamente ad un essere umano, sia un tutt'uno di armoniche parti interdipendenti, nessuna delle quali può esistere isolata dalle altre. Nessun tipo di dualismo o di pluralismo atomistico può costituire il fondamento ultimo del Tutto, poiché la riduzione all'unità è la condizione dell'intelligibilità. «In principio, c'era solo l'Essere – uno solo, senza un secondo» (Chāndogya Upaniṣad, VI, 2, 1, ekam evādvitīyam, lett. “quell'Uno non-duale”). Einstein si rivela un grande precursore del futuro che, paradossalmente, guarda al passato per recuperare l'invarianza relazionale contro lo scetticismo, il dogmatismo ed il relativismo, che, nel frattempo, erano penetrati attraverso i secoli nella mentalità e nelle metodologie dei fisici, quali frutti di sistemi rigidi e parziali.
Nel 1893, il fisico e filosofo Ernst Mach formulò il principio che da lui prese il nome: “l'inerzia di ogni sistema è il risultato dell'interazione del sistema stesso con il resto dell'universo”. Tutti abbiamo fatto esperienza dell'inerzia quando, da piccoli, abbiamo lasciato rotolare una pallina sul pavimento: se non si frapponeva un ostacolo, o se il pavimento non era abrasivo, la pallina continuava indefinitamente il suo moto. Il perché ciò avvenga, benché sia stato posto come principio fondante della fisica di Galileo Galilei, è rimasto un mistero fino al Novecento, quando, con le considerazioni di Mach e di Einstein, si è supposto essere una conseguenza della connessione di tutte le cose: se, come dicono le Upaniṣad (Chāndogya Upaniṣad, VIII, 1, 3), l'ātman contiene questo intero Universo, allora ogni cosa che accade si riflette nell'ātman di qualche altro soggetto, influenzandolo. Questa visione olistica di interdipendenza è perfettamente compatibile, oltre che con le basi filosofiche della Relatività Generale, anche con la filosofia di Leibniz, il cui olismo delle monadi, specchio dell'intero universo (unicum in tutto l'Occidente), ammetteva la possibilità di un'influenza reciproca quantificabile tra tutte le realtà del cosmo.
Infine, venendo alle dirette connessioni con lo Yoga, parliamo del concetto di “vuoto”. Abbiamo detto che Einstein considerò, inizialmente, la luce come tanti piccoli proiettili che si propagano nel vuoto. Ma se intendiamo ciò secondo il principio di non-contraddizione (“il non essere non è e non può essere”), allora non può esistere un siffatto “vuoto” dove si propaghi la luce, poiché, per definizione, in esso nessun fenomeno fisico deve avere luogo. Pochi anni prima della morte, Einstein fu costretto ad affermare (La Relatività ed il problema dello spazio, 1952, paragrafo conclusivo): «Cartesio non era dunque così lontano dal vero quando credeva di dover escludere l'esistenza di uno spazio vuoto (omissis). Solo l'idea del campo rappresentante la realtà, in combinazione con il principio generale di relatività, riesce a rivelare il vero nocciolo dell'idea di Cartesio: non esiste spazio “vuoto di campo”». Una posizione gnoseologica influenzata dall'allora contemporanea elaborazione della teoria quantistica dei campi (QFT). Si noti che sarebbe lecito pensare al concetto Einsteiniano di “campo” come al nuovo sostituto metafisico dell'etere, da sempre postulato (ākāśa) nei darśana Vaiśeṣika e Sāṃkhya, quale mezzo di propagazione delle interazioni che mantengono l'unità dell'universo. Allora, il concetto di “vuoto” diviene “svuotamento” da strutture precostituite (siano essi concetti statici o le “oscillazioni della mente” su cui si potrebbe aprire un altro capitolo), per riempirsi della Pienezza fecondativa e generativa dell'Essere. Asana è, prima di tutto, sedersi in uno spazio vuoto, non è abitare una forma conosciuta o prestabilita, ma diventare come la forma dell'acqua, quella vacuità propugnata anche dal taoismo. Nello Yoga è centrale dimorare in un luogo (deśa, Yoga Sūtra III, 1) e farne un supporto di centratezza (“con-centrare” la Realtà) ed unificazione interna, fino a realizzare che non è un sostegno compatto, ma “fatto di spazio” (nirāśraya, Vijñānabhairava Tantra Sūtra, 92, 144-145).
Naturalmente, si tratta di riflessioni profonde, che richiederanno uno sviluppo in più articoli, per evitare fraintendimenti e riduzioni varie. Considereremmo, tuttavia, proficuo questo tentativo di “introduzione” ad un confronto serio tra le due discipline, se i lettori avranno considerato come le Scritture sulle quali basiamo le nostre pratiche influenzino di gran lunga la visione metafisica dei programmi di ricerca scientifica. Tutto ciò ci deve portare, con sano ed equilibrato criticismo, ad evitare ogni estremismo da entrambi i lati: scienza e Veda (o Bibbia), ciascuno con il proprio campo d'azione.
BIBLIOGRAFIA TECNICA PER CHI VOLESSE APPROFONDIRE
BRIDGMAN, Percy Williams, La logica della fisica moderna, Bollati Boringhieri, 1965 (ed. italiana)
CASSIRER, Ernst, La teoria della Relatività di Einstein, Castelvecchi, 2015
EINSTEIN, Albert, Opere Scelte, a cura di E. Bellone, Bollati Boringhieri, 1988
PANIKKAR, Raimon, La porta stretta della conoscenza, Rizzoli, 2005
PANIKKAR, Raimon, I Veda – mantramañjarī, BUR, 2016
BERKELEY, George, De motu, 1721
MACH, Ernst, Conoscenza ed errore. Abbozzi per una psicologia della ricerca, trad. di S. Barbera, Einaudi, 1982
ROVELLI, Carlo, L'ordine del tempo, Adelphi, 2017
DIGRAZIA, Kenan, Le origini della Relatività Speciale, tesi di laurea, Università degli Studi di Catania, 2020
Un'altra tendenza cui assistiamo ai nostri giorni, e circa la quale sarebbe opportuno fare chiarezza, è quella, da parte dei cosiddetti nazionalisti Indù o tradizionalisti indiani, di voler far risalire sempre e comunque le innovazioni cardine della scienza moderna alle scritture di area vedica, creando a volte collegamenti interessanti, a volte teorie imbarazzanti per chi le propone.
E' infatti una dote rara aver afferrato concettualmente le regole fisiche alla base dell'Universo e in particolare la teoria della relatività, così come la meccanica quantistica e sapersi orientare tra onde e particelle, ma soprattutto saper rendere questi argomenti accessibili ai non addetti ai lavori. Sono divenute proverbiali le parole di Richard Feynman, premio Nobel per la fisica nel 1965 per l'elaborazione dell'elettrodinamica quantistica e grande divulgatore scientifico:
"Penso di poter affermare che nessuno capisce la meccanica quantistica.“
Riteniamo inoltre molto interessante osservare come scienza e religioni si osservino e si influenzino reciprocamente molto più di quanto si è soliti credere. Per questo motivo è un punto di vista non frequente ed estremamente utile quello evidenziato nell'articolo di Kenan Digrazia, fisico dell'Università di Catania ed appassionato di storia delle religioni e delle scritture induiste, a cui lasciamo ora la parola, con l'augurio che questi suoi approfondimenti possano diventare in futuro una rubrica fissa su Yoga Magazine Italia.
Molti potrebbero domandarsi cosa abbia a che fare il geniale fisico tedesco con le Upaniṣad e lo Yoga. Cominciamo subito col precisare che, oggigiorno, su internet si trova un po' di tutto: vi sono gli accostamenti più disparati tra meccanica quantistica ed intuizione della non-dualità (advaita), passando per analisi del concetto della risonanza cosmica, śabda, e così via. Tuttavia, molti di questi “articoli” sono spesso viziati da sensazionalismi e da volgarizzazioni, che determinano l'effetto di travisare la materia che si desidera esporre, risultando in un fraintendimento concettuale fatale per il lettore, ed anche per lo stesso scrittore. Le ragioni di un simile fenomeno sono indubbiamente numerose e complesse, da ricercarsi, qualora esso accada in buona fede, principalmente nella mancanza di preparazione e di approfondimento delle discipline da collegare (fisica ed indologia), quale risultato della “obesità di informazione” cui siamo sottoposti, creante un falso senso di competenza. Non è tuttavia nostra intenzione prendere in esame tali motivazioni: con questo articolo, che speriamo essere il primo di una proficua serie, desideriamo liberare il campo della comunicazione tra queste due forme di conoscenza con la stessa dignità da parecchi punti “nebulosi”, ribadendo al contempo le reali e profonde riflessioni che la fisica moderna, con le sue scoperte, suscita in tutti gli appassionati e conoscitori della scienza vedica. Benché non desideriamo abbandonare il rigore tematico che l'onestà intellettuale ci impone, cercheremo comunque di esporre, per quanto possibile, alcuni concetti che risulterebbero difficili ad un lettore digiuno di fisica attraverso spiegazioni di più immediata comprensione.
Cominciamo dunque col trattare in sintesi la tematica dei lavori di Albert Einstein. È noto che il fisico di Ulm fosse un assiduo lettore della Bhagavad Gītā, di importanza capitale per tutti coloro che praticano la via dello Yoga in ogni sua declinazione. L'interesse degli scienziati tedeschi di inizio '900 per le opere indiane non si limita di certo al solo Einstein: Niels Bohr, Werner Heisenberg ed Erwin Schrödinger, ad esempio, tra i padri fondatori della meccanica quantistica, consultavano regolarmente le Upaniṣad. Robert Oppenheimer, esponente di spicco del progetto Manhattan ed il primo a comprendere l'effetto tunnel, cita più volte la Gītā nelle sue interviste e, in più di un'occasione, si spinse ad affermare: «l'accesso ai Veda è il più grande privilegio che questo secolo [il ventesimo] possa rivendicare, su tutti i secoli precedenti». Gli orientalisti tedeschi dell'Ottocento, con le loro traduzioni, assieme a molti filosofi e teosofi, contribuirono a diffondere nei vari ambienti culturali le opere dell'induismo.
La strabiliante precisione “scientifica” (per l'epoca) delle affermazioni dei Veda è, a tutt'oggi, pienamente riconosciuta. Due soli esempi, tra i numerosi: il Sole sospeso nello spazio interplanetario, asse (di rotazione) immobile per tutti i pianeti (Ṛg Veda I, 35, 2 e Ṛg Veda IV, 13, 4-5) e la velocità della luce espressa con incredibile precisione nel commento di Sāyaṇa (vissuto nel XIV secolo) alla mantra Ṛg Veda I, 50, 10, dove egli scrive testualmente: «... [O Sole,] mi inchino a voi, che giungete a noi in 2.202 yojana in mezzo nimesha»; usando i fattori di conversione comunemente accettati per queste unità di misura di spazio e di tempo, si ottiene una velocità compresa tra i 299 e 310 mila km/s, che si discosta di pochissimo da quella oggi nota senza errore: 299.792,458 km/s. Un risultato che continua a stupire e ad affascinare i fisici moderni, che non comprendono come sia stato possibile esprimerlo con una simile accuratezza. Naturalmente, in questa sede non è nostro obbiettivo proporre alcun tentativo di spiegazione dei motivi della profondità della conoscenza indica: l'unità della vera Sapienza è fuori discussione in ogni sincera visione, tanto religiosa, quanto scientifica. Non deve meravigliare che numerose intuizioni di Einstein trovino poi fondato riscontro nelle Upaniṣad e negli Yoga Sūtra di Patañjali. Ma andiamo con ordine.
Nel suo articolo del 1905, Sull'elettrodinamica dei corpi in movimento, Einstein sancisce che la misura del tempo per mezzo di segnali luminosi possa dare un nuovo fondamento alla fisica. In poche parole, immaginate di disporre di un cronometro che si attiva proprio quando un certo segnale laser raggiunge una fotocellula collegata. Allora, se facciamo percorrere alla luce una lunghezza fissa a nostro piacimento, possiamo sicuramente misurare il tempo, a patto, però, di immaginare la costanza della velocità della luce in tutti i sistemi di riferimento. Da qui venne uno dei due postulati alla base della teoria della Relatività Speciale, ovvero che la velocità della luce nel “vuoto” sia costante e la massima possibile. Lo scorrere del tempo è determinato dalla velocità di propagazione dell'informazione, che fa sì che gli eventi si influenzino tra di loro: ciascuno di noi fa esperienza di questo, ad esempio, con il suono. Se un aereo supersonico passa sopra la nostra testa, allora, dopo un certo lasso di tempo, udremo il boato, e, magari, proveremo un piccolo spavento. Maggiore è la distanza dall'aereo, più tempo ci vorrà perché all'evento “passaggio dell'aereo” segua l'evento “sussulto cardiaco”; fino ad arrivare ad una distanza oltre la quale non udremo nulla e non vi sarà rapporto di casualità tra i due eventi: se ci siamo spaventati, sarà di certo per un'altra ragione, magari una pietanza dimenticata nel forno. Una cosa simile accade per la luce nell'Universo: è chiaro, dunque, che lo spazio ed il tempo degli eventi divengono interrelati in un unico concetto: lo spazio-tempo. Ebbene, questa intima connessione della dimensione spaziale con quella temporale era stata intuita già nella Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad (III, 8) del IX secolo a. C! In essa, il grande Yājñavalkya, interrogato a tal proposito dalla filosofa Gārgī Vācaknavī, sancisce che spazio e tempo sono due aspetti complementari dell'unica manifestazione della realtà, satya: «quello che è chiamato spazio è intessuto nel tempo come sua trama ed ordito». Non bisogna pensare allo spazio-tempo come ad un concetto soggettivo: si tratta di associare ad ogni evento quattro coordinate, tre spaziali ed una temporale, misurabili con opportuni procedimenti. Tra scienza e metafisica sussiste dunque una buona dose di reciproca influenza, ma senza mai dimenticare l'autonomia dei singoli campi di ricerca. Il tempo della coscienza non è il tempo quantizzato della fisica, sebbene entrambi gli aspetti siano utili nell'avanzamento della nostra comprensione del Tutto.
Un altro aspetto di grande importanza è costituito dalla Luce, che avrà un approfondimento dal punto di vista della fisica quantistica in un altro articolo. Le problematiche relative a ciò che noi genericamente chiamiamo “luce” in fisica sono notevoli e contengono una buona dose di convenzionalità. Il problema è antico, tanto da richiedere precisazioni linguistiche, come accade nel caso del sanscrito, ove si discernono pratibhā, lo splendore (luce rivelata dalla sua interazione con la materia ordinaria), rocana (la luce dei corpi celesti) e jyotis, luce in sé, dal significato ontologico e spirituale. Il premio Nobel P. W. Bridgman afferma che la luce acquista realtà fisica in funzione degli oggetti che essa illumina; «non significa altro che cose illuminate» (da La logica della fisica moderna). Possiamo rivelarne le proprietà solo in seguito ad una sua interazione con la materia costituente la nostra strumentazione, ma nulla possiamo dire su cosa avvenga nello spazio letteralmente buio che separa la sorgente dal rivelatore. Liricamente, potremmo affermare con il commento di Raimon Panikkar a Ṛg Veda IV, 13 che «la luce splende sempre al di fuori delle tenebre; altrimenti non splenderebbe». Se pensiamo alla luce come ad un meccanismo ondulatorio di trasporto dell'energia, allora, la celeberrima equazione di Einstein E = mc2 conferma la struttura “luminosa” della Realtà che emerge da Veda ed Upaniṣad. In Ṛg Veda I, 115, 1 si dice che l'energia luminosa simboleggiata nel Sole è «principio vivente (ātman!) di ogni cosa»; tale affermazione acquista ora nuovo valore con le conseguenze della Relatività Speciale, suggerendo che la luce non possa essere localizzata o indicata come “cosa”, ma che essa è la struttura interna della realtà stessa. La “materia” è luce cristallizzata. Se accettiamo la visione operazionista di Bridgman, potremmo dire che la grandezza “massa” e la grandezza “energia” non esistono più come concetti fisici distinti, ma che esistono solamente definiti procedimenti di misurazione che portano a rivelare un risultato che chiameremo ora massa, ora energia, a seconda della precisa interazione della strumentazione con il fenomeno in sé. Le Upaniṣad approfondiscono tali riflessioni, si vedano, ad esempio, la Maitrī-Upaniṣad VI, 3 (“Brahman è Luce”), la Chāndogya III, 17, 7 e la Śvetāśvatara V, 4 (“come la luce pervade tutto, così l'Uno, Dio, governa su tutta la creazione”).
Tutto ciò ci conduce alla visione relazionale della realtà: tutto è interconnesso. Non a caso, Einstein sente l'esigenza di giungere ad un postulato più generale per l'unità del cosmo: approdiamo alla Relatività Generale, la cui base fondante afferma che tutte le leggi fisiche siano invarianti in forma in tutti i sistemi di riferimento. Non più, quindi, solo la velocità della luce, ma anche la gravità che plasma lo spazio-tempo come fosse un telone che si incurva. Per fare ciò bisogna abbandonare gli enti statici, quali sostanza, massa, … , per approdare all'antica concezione relazionale della realtà, esposta già nel I millennio a. C. attraverso il simbolo del Puruṣa (presente in Veda e Upaniṣad), cioè che l'Universo, analogamente ad un essere umano, sia un tutt'uno di armoniche parti interdipendenti, nessuna delle quali può esistere isolata dalle altre. Nessun tipo di dualismo o di pluralismo atomistico può costituire il fondamento ultimo del Tutto, poiché la riduzione all'unità è la condizione dell'intelligibilità. «In principio, c'era solo l'Essere – uno solo, senza un secondo» (Chāndogya Upaniṣad, VI, 2, 1, ekam evādvitīyam, lett. “quell'Uno non-duale”). Einstein si rivela un grande precursore del futuro che, paradossalmente, guarda al passato per recuperare l'invarianza relazionale contro lo scetticismo, il dogmatismo ed il relativismo, che, nel frattempo, erano penetrati attraverso i secoli nella mentalità e nelle metodologie dei fisici, quali frutti di sistemi rigidi e parziali.
Nel 1893, il fisico e filosofo Ernst Mach formulò il principio che da lui prese il nome: “l'inerzia di ogni sistema è il risultato dell'interazione del sistema stesso con il resto dell'universo”. Tutti abbiamo fatto esperienza dell'inerzia quando, da piccoli, abbiamo lasciato rotolare una pallina sul pavimento: se non si frapponeva un ostacolo, o se il pavimento non era abrasivo, la pallina continuava indefinitamente il suo moto. Il perché ciò avvenga, benché sia stato posto come principio fondante della fisica di Galileo Galilei, è rimasto un mistero fino al Novecento, quando, con le considerazioni di Mach e di Einstein, si è supposto essere una conseguenza della connessione di tutte le cose: se, come dicono le Upaniṣad (Chāndogya Upaniṣad, VIII, 1, 3), l'ātman contiene questo intero Universo, allora ogni cosa che accade si riflette nell'ātman di qualche altro soggetto, influenzandolo. Questa visione olistica di interdipendenza è perfettamente compatibile, oltre che con le basi filosofiche della Relatività Generale, anche con la filosofia di Leibniz, il cui olismo delle monadi, specchio dell'intero universo (unicum in tutto l'Occidente), ammetteva la possibilità di un'influenza reciproca quantificabile tra tutte le realtà del cosmo.
Infine, venendo alle dirette connessioni con lo Yoga, parliamo del concetto di “vuoto”. Abbiamo detto che Einstein considerò, inizialmente, la luce come tanti piccoli proiettili che si propagano nel vuoto. Ma se intendiamo ciò secondo il principio di non-contraddizione (“il non essere non è e non può essere”), allora non può esistere un siffatto “vuoto” dove si propaghi la luce, poiché, per definizione, in esso nessun fenomeno fisico deve avere luogo. Pochi anni prima della morte, Einstein fu costretto ad affermare (La Relatività ed il problema dello spazio, 1952, paragrafo conclusivo): «Cartesio non era dunque così lontano dal vero quando credeva di dover escludere l'esistenza di uno spazio vuoto (omissis). Solo l'idea del campo rappresentante la realtà, in combinazione con il principio generale di relatività, riesce a rivelare il vero nocciolo dell'idea di Cartesio: non esiste spazio “vuoto di campo”». Una posizione gnoseologica influenzata dall'allora contemporanea elaborazione della teoria quantistica dei campi (QFT). Si noti che sarebbe lecito pensare al concetto Einsteiniano di “campo” come al nuovo sostituto metafisico dell'etere, da sempre postulato (ākāśa) nei darśana Vaiśeṣika e Sāṃkhya, quale mezzo di propagazione delle interazioni che mantengono l'unità dell'universo. Allora, il concetto di “vuoto” diviene “svuotamento” da strutture precostituite (siano essi concetti statici o le “oscillazioni della mente” su cui si potrebbe aprire un altro capitolo), per riempirsi della Pienezza fecondativa e generativa dell'Essere. Asana è, prima di tutto, sedersi in uno spazio vuoto, non è abitare una forma conosciuta o prestabilita, ma diventare come la forma dell'acqua, quella vacuità propugnata anche dal taoismo. Nello Yoga è centrale dimorare in un luogo (deśa, Yoga Sūtra III, 1) e farne un supporto di centratezza (“con-centrare” la Realtà) ed unificazione interna, fino a realizzare che non è un sostegno compatto, ma “fatto di spazio” (nirāśraya, Vijñānabhairava Tantra Sūtra, 92, 144-145).
Naturalmente, si tratta di riflessioni profonde, che richiederanno uno sviluppo in più articoli, per evitare fraintendimenti e riduzioni varie. Considereremmo, tuttavia, proficuo questo tentativo di “introduzione” ad un confronto serio tra le due discipline, se i lettori avranno considerato come le Scritture sulle quali basiamo le nostre pratiche influenzino di gran lunga la visione metafisica dei programmi di ricerca scientifica. Tutto ciò ci deve portare, con sano ed equilibrato criticismo, ad evitare ogni estremismo da entrambi i lati: scienza e Veda (o Bibbia), ciascuno con il proprio campo d'azione.
BIBLIOGRAFIA TECNICA PER CHI VOLESSE APPROFONDIRE
BRIDGMAN, Percy Williams, La logica della fisica moderna, Bollati Boringhieri, 1965 (ed. italiana)
CASSIRER, Ernst, La teoria della Relatività di Einstein, Castelvecchi, 2015
EINSTEIN, Albert, Opere Scelte, a cura di E. Bellone, Bollati Boringhieri, 1988
PANIKKAR, Raimon, La porta stretta della conoscenza, Rizzoli, 2005
PANIKKAR, Raimon, I Veda – mantramañjarī, BUR, 2016
BERKELEY, George, De motu, 1721
MACH, Ernst, Conoscenza ed errore. Abbozzi per una psicologia della ricerca, trad. di S. Barbera, Einaudi, 1982
ROVELLI, Carlo, L'ordine del tempo, Adelphi, 2017
DIGRAZIA, Kenan, Le origini della Relatività Speciale, tesi di laurea, Università degli Studi di Catania, 2020
1 commenti
Nel mio piccolo sapere, ti faccio i miei complimenti, anche se non ho la possibilità di giudicare in questo campo articolato ricco di informazioni. Posso solo dire che le dimensioni ,nel spazio ,nel tempo, nei numeri,e nella materiamateria, e talmente grande da rendersi conto quando strada la mente umana deve fare , affinché si avvicini alla conoscenza universale.
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