di Marco Sebastiani
Pattabhi Jois è stato sicuramente uno dei maestri che più ha influenzato lo yoga moderno. Guruji (caro maestro), come veniva e viene chiamato affettuosamente dai praticanti, si riallaccia a sua volta alla tradizione iniziata dal suo maestro, Tirumalai Krishnamacharya, il cosiddetto padre dello yoga moderno. Entrambi questi grandi yogi erano bramhani per nascita, rispettivamente era visnuita Krishnamacharya e shivaita Jois. Conducevano infatti un'intensa vita religiosa e rituale, ma, a dispetto di ciò, uno dei maggiori meriti, tra i tanti che possiamo riconoscere loro, è stato proprio quello di distinguere e fare luce tra gli aspetti spirituali e quelli religiosi dello yoga. Facendo loro il messaggio di Patanjali, percorrono la strada indicata negli yoga sutra. In modo molto fedele riferiscono entrambi continuamente al percorso degli otto passi. Non è certo per caso che il maestro Jois chiamò il suo yoga "Ashtanga". Krishnamacharya e Jois astraggono però ulteriormente il concetto di samadhi (ricongiungimento tra spirito assoluto e spirito individuale), di atman (spirito individuale) di brahman (spirito assoluto) e di ishvara (essere supremo), facendoli diventare categorie universalmente umane e non più squisitamente religiose.
Ecco così che il mantra iniziale della pratica, di invocazione, pur dal sapore strettamente tradizionale, acquisisce nuovi significati.
Oltre a questo aspetto, la maggiore differenza che possiamo ritrovare tra lo yoga di Patanjali e quello di Pattabhi Jois, la dobbiamo all'influenza che la via del tantrismo ebbe sul secondo. In modo analogo alle opere fondanti dello yoga tantrico (Atha Yoga Pradipika, Shiva Samita, Gheranda Samita, etc.), lui, come il suo maestro, sfuma l'importanza dei primi due componenti dello yoga di Patanjali, ovvero i precetti etici e morali, yama e nyama. Sappiamo con certezza il perchè di questa impostazione dello yoga tantrico. I tantrika non volevano percorrere un sentiero di ascetismo esasperato, di astrazione dal mondo, di svilimento del corpo, ma, al contrario, volevano arrivare all'illuminazione finale, proprio grazie al corpo ed al mondo fenomenico nel quale è immerso, attraverso maya, l'illusione e il samsara, il mondo della condizione umana. Incontreremo entrambi questi termini, maya e samsara, nel nostro mantra di apertura. Questo discorso, nelle varie scuole tantriche, acquisisce toni più o meno marcati, ma nello yoga dei nostri due maestri, significa portare l'attenzione non tanto sui buoni propositi e sulle teorie comportamentali, quanto sulla pratica quotidiana delle posizioni, del controllo del respiro e dell'energia, sullo sguardo interno dei sensi, sulla concentrazione e sulla meditazione, in poche parole sui successivi cinque passi: asana, pranayama, pratyahara, dharana, dyana e samadhi. Quest'ultimo passo, essendo lo scopo finale della pratica, è presente, ma in modo implicito. E' inutile parlarne, costituisce un'esperienza squisitamente personale che non si può ricercare in quanto tale, ma che segue, come conseguenza, la pratica intensa e assidua dello yoga. Per questo Pattabhi Jois affermava "pratica e tutto il resto seguirà ".
Queste non vogliono essere le parole di chi ritiene di avere capito il senso dello yoga, o dell'Ashtanga, ci mancherebbe, ma vuole essere solamente l'opinione personale di un praticante.
Gli aspetti precedentemente accennati sono molto evidenti nel mantra che tradizionalmente viene sempre recitato all'inizio delle sedute di Ashtanga Yoga.
Come vedemo, ciascuno dei discepoli di Krishnamacharya ricevette la propria versione personale e personalizzata di questo mantra, ma non voglio anticipare la successiva analisi.