Lo yoga e le altre 5 darsana indiane
gennaio 18, 2019di Marco Sebastiani
Ci interroghiamo spesso tra le pagine di questa rivista sul significato di tradizione e sull’importanza che questo aspetto ha nel mondo dello yoga. Siamo oggi consapevoli che sia solamente possibile parlare di “tradizioni” e di come spesso certe forze contrarie ad essa, ovvero innovative, abbiano rappresentato i valori più importanti dello yoga. Se, ad esempio, lo yoga non è oggi un’arte esoterica insegnata solamente ad iniziati in gruppi religiosi segreti, ma è accessibile al mondo intero, lo dobbiamo proprio all’innovazione portata da alcuni grandi maestri. Di contro, è meravigliosamente affascinante riconnettersi con gli insegnamenti antichi di millenni, insegnamenti che spesso rispondono a domande ancestrali. Yoga è un termine sanskrito e, per quanto innovative possano essere oggigiorno le forze intorno ad esso, sarà sempre in questo contesto che ci muoveremo, altrimenti perderemmo qualsiasi riferimento valido e rischieremmo di riferirci con questo nome a cose completamente estranee. Come capita di vedere.
Per capire la vera natura dello Yoga, come un percorso di realizzazione spirituale, è necessario avere una piccola comprensione delle sei scuole o sistemi classici della filosofia indiana, o induista che dir si voglia, di cui lo Yoga costituisce un elemento. Lo yoga è infatti una delle sei darsana ( दर्शन ), letteralmente "visioni" o scuole filosofiche, che caratterizzano la storia del pensiero indiano. Procederemo con qualche schematismo, sfumando gli aspetti filosofici più ostici, ma cercando di restituire la loro specificità e il quadro complessivo d’insieme. Comprendendo lo Yoga in questo contesto, è più facile approfondire quest’arte come pratica d’illuminazione, ciò che è in realtà, piuttosto che come semplice programma di fitness, così come forse oggi è diventato famoso, in modo estraneo al suo contesto.
E’ importante notare che il “sistema Yoga” contiene, o meglio è costruito, come vedremo, sugli altri sistemi. In altre parole la pratica tradizionale dello yoga, e la filosofia che ne è alle spalle, incorpora al suo interno gli altri sistemi.
Molti ritengono che i sistemi filosofici di riferimento non siano sei, ma sette. Anche se non c'è un accordo universale, è possibile considerare gli insegnamenti di Buddha un settimo sistema o scuola di filosofia, piuttosto che un sistema separato, in quanto i suoi metodi derivano dalla stessa radice. In realtà, sono soprattutto i buddhisti che pensano agli insegnamenti del Buddha come a un sistema totalmente separato e non una settima scuola di filosofia indiana. Certi rami induisti hanno infatti inglobato il buddismo nel proprio orizzonte conoscitivo e considerano il Buddha un avatar di Visnu, consapevoli anche del fatto che oggi in India questa dottrina non esista di fatto più e sia esclusivamente legata al passato.
Le date esatte per la formalizzazione dei sei sistemi non sono note; gli studi erano in origine puramente orali, poiché la scrittura non era ancora stata inventata. Tuttavia, le stime variano generalmente da circa 2000-3000 fino a 5.000-10.000 anni fa, o più. L'assenza di date chiare, o la loro attribuzione a periodi tanto remoti, è spiegata dal fatto che la pratica di queste scuole è sicuramente senza tempo, è basata su delle verità superiori, o, meglio, costituisce il tentativo di rispondere alle eterne domande dell’uomo: cosa è la realtà, qual’è il senso della vita?
Spesso i grandi maestri bramani di yoga sono esperti di tutti questi sistemi, seppure si specializzino nella via proposta da uno. E' noto che il maestro Krisnamacharya, fosse ad esempio "laureato" in tutti e sei gli insegnamenti. Le sei darsana o dottrine filosofiche tradizionali indiani, applicando le semplificazioni e gli schematismi indispensabili, sono le seguenti:
Nyāya - न्याय
Nyaya letteralmente significa “metodo”, “regole” o “giudizio, è un sistema di indagine sistematico basato sulla logica, è una scuola di speculazione filosofica, divenuto solo in seguito un sistema metafisico. Si basa su testi conosciuti come Nyaya Sutra, che furono scritti da Aksapada Gautama, nel II secolo a.C. Il contributo più rilevante apportato dal Nyaya all’Induismo moderno consiste nella metodologia; quest’ultima è basata su un sistema logico che in seguito fu adottato dalla maggior parte delle altre scuole induiste (ortodosse o non), similmente al modo in cui scienza, religione e filosofia occidentali possono considerarsi basate sulla logica aristotelica. Nyaya differisce dalla logica aristotelica, in quanto non è semplicemente una logica fine a sé stessa, ma si spinge oltre. Non che Aristotele comunque non lo abbia fatto, ma non mettendo in relazione diretta la logica con l’ascensione dello spirito. Secondo questa scuola di pensiero, ottenere una valida conoscenza è l’unico modo per ottenere la liberazione dalla sofferenza; l’unica conoscenza autentica è quella che non potrà mai essere soggetta a dubbio o contraddizione, quella che riproduce l’oggetto per ciò che realmente è, e che pertanto permette di percepire la realtà in maniera veritiera e fedele. Solamente questa può considerarsi vera conoscenza, ed è contrapposta al ricordo e al dubbio, così come al ragionamento puramente ipotetico e, quindi, incerto. Nyaya è probabilmente il più vicino equivalente indiano della filosofia analitica.
La scuola di Nyaya condivide alcune delle sue metodologie, e l’idea del fondamento della sofferenza umana, con il buddismo; tuttavia, una differenza fondamentale tra i due è che il buddismo ritiene che non ci sia né un'anima né un sé nel modo immaginato dalla scuola di Nyaya, che, come le altre scuole dell'induismo, crede che ci sia un'anima e un sé, e che la liberazione (moksha) sia uno stato di rimozione dell'ignoranza, della conoscenza sbagliata, il guadagno della conoscenza corretta e della continuazione senza impedimenti del sé.
La verità contrapposta all’ignoranza, l’ignoranza come causa della sofferenza umana, la liberazione dello spirito del sè, sono temi cari anche allo yoga. Le opere classiche dello yoga, a partire dagli yoga sutra, applicano in una certa maniera, nell’esposizione, la logica della scuola nyaya.
Sāṃkhya - सांख्य
Samkhya è un termine sanscrito che indica la "numerazione", il "numero". Con questo nome nella cultura religiosa induista si indica uno dei sei sistemi di pensiero sviluppatisi a partire dal pieno Brahmanesimo. Secondo alcuni è la più antica filosofia sistematica apparsa fra le tradizioni hindu, e ha influito considerevolmente sulle altre scuole filosofiche e religiose dell'induismo. Nella letteratura esistono due versioni del Sāṃkhya, una ritenuta teista e l'altra non teista. Secondo Vivekananda, il fondatore del razionalismo indiano è stato il mitico Kapila, il fondatore del pensiero Sāṃkhya. D'altronde è lo stesso Īśvarakṛṣṇa che, nella kārikā 70 della sua Sāṃkhyakārikā, scrive d'essere il depositario di una scuola il cui iniziatore è Kapila.E’ importante sottolineare che, nei suoi sviluppi iniziali, il Sāṃkhya è connesso con l'evolversi di un'altra delle sei darśana dell'induismo, lo Yoga classico. Così l'orientalista Giuseppe Tucci si esprime nella sua “Storia della filosofia indiana”: «Di questi due sistemi quasi sempre si discorre insieme perché entrambi hanno uno sfondo dottrinale comune. […] Le idee che i due sistemi esprimono hanno origini antiche.» Infatti lo Yoga classico, così come esposto da Patañjali nel suo Yoga Sūtra, si appropria della metafisica dualista del Sāṃkhya, con qualche variante, differenziandosene non tanto nella dottrina quanto soprattutto nel metodo: lo Yoga ritiene insufficiente la conoscenza metafisica ai fini della liberazione, sostenendo invece la pratica di discipline psichiche e fisiche le cui origini sembrano essere ancora più remote. Come sottolineato circa gli yoga sutra, esiste una certa flessibilità nel ritenere questa opera “dualista” o “non dualista”, come anche nell’utilizzo di questi due termini, basterà qui evidenziare come, prescindendo dal termine che si decide di adottare, c’e’ una sostanziale convenrgenza tra i sutra sullo yoga e la scuola Samkhya riguardo ai concetti di spirito individuale e spirito universale, ma anche oltre.
Nella stessa kārikā 70 sopra citata è inoltre adoperato il termine tantra per indicare la dottrina che Īśvarakṛṣṇa sostiene di aver ereditato da Kapila. L'indologo indiano Chandra Bagchi identifica da questo il Sāmkhya come un Tantra. Egli afferma che la filosofia dell'opera costituì uno degli influssi principali sullo sviluppo dei tantra, sia dal punto di vista del corpus della letteratura che in riferimento al Tantra sadhana, la via della pratica del tantra. Anche Śankara usa il termine Kapilasya-tantra per denotare il sistema esposto da Kapila (la filosofia Sāmkhya) e il termine Vaināśikā-tantra per denotare la filosofia buddista dell'esistenza momentanea.
Permetteteci ora un approfondimento speciale per la scuola Samkhya, vista la sua importanza per la filosofia dello yoga di Patanjali e tantrico. Secondo questo sistema filosofico, l'intera realtà scaturisce dalla relazione fra due princìpi onnipervadenti ed eterni: quello pluralistico dei puruṣa e quello evoluzionistico della prakṛti, la materia. I puruṣa sono gli spiriti delle individualità umane, le monadi spirituali, che sono di numero infinito. Tali puri spiriti, i puruṣa, sono spettatori passivi e testimoni silenziosi delle evoluzioni della prakṛti (la "materia" o "natura") che è completamente pervasa da tre qualità costitutive, i guṇa: sattva, rajas e tamas. Queste entrano nella composizione di qualsiasi manifestazione della natura e corrispondono, rispettivamente, alla "leggerezza, luminosità", all'"attività, dinamismo" e alla "pesantezza, oscurità". Quando la quiete della prakṛti, cioè l'equilibrio fra i tre guṇa, viene alterata, si ha l'inizio di un nuovo universo e, quindi, l'avvio evolutivo del mondo manifesto. Questa alterazione dello stato originario di quiete è dovuta alla stretta vicinanza tra puruṣa e prakṛti e causata dalla relazione intercorrente fra questi due princìpi. Il Puruṣa va infatti considerato come il perenne ispiratore che, con la sua sola presenza, dona coscienza e vitalità all'intero creato e che, all'interno della singola manifestazione e quindi dell'uomo, diviene anima e assume l'aspetto di colui che conosce e non agisce. La prakṛti, invece, con l'imperfezione che la contraddistingue, è un ente agente e non cosciente. Lo stato di assoluto isolamento (kaivalya) del sé (puruṣa) rispetto ai tre mondi - terreno, intermedio e divino - consiste nel riconoscere la diversità fra questi due enti attraverso la conoscenza dei 25 princìpi che strutturano il sistema Sāṃkhya.
La filosofia Sāṃkhya è un dualismo fondamentalmente ateo, che esclude qualsiasi concetto di divinità o Īśvara e si limita a considerare le individualità umane (i puruṣa) e la materia (la prakṛti). Tali due principi sono considerati equivalenti, per quanto i puruṣa umani, rappresentanti la spiritualità, siano gli attori di un'ascesi spiritualistica e morale verso uno stato finale di tipo mistico. Da questo l'ipotesi che il Buddhismo originario di Siddharta Gautama possa avervi fatto riferimento. L'onnipervadenza della prakṛti è lo scenario in cui i puruṣa fluttuano alla ricerca di una perfezione individuale. Come nel Buddhismo, il fine più immediato è quello del superamento della sofferenza per mezzo della "conoscenza", alla quale segue l'aspirazione all'"isolamento".
La scuola del Sāṃkhya è la prima a proclamare l'indipendenza della ragione umana dalla rivelazione tipica della cultura vedica tradizionale, come avviene, ad esempio, nelle Upaniṣad. I puri spiriti, le anime individuali, debbono liberarsi dai vincoli karmici, dal susseguirsi delle reincarnazioni. Benché ciò evochi la possibilità di un'"anima generale" originaria sparpagliata nelle anime individuali, di questo concetto non v'è alcuna traccia nel Sāṃkhya, mentre è tipico del Vedānta panteistico e anche di alcune scuole yoga. L'anima individuale, il "corpo sottile", che, in quanto essenza già presente nella quiete originaria della prakṛti, ha la possibilità di evolvere fino al conclusivo "isolamento dalla materia", svincolandosi definitivamente dal saṃsāra ed ottenendo così la liberazione dalla sofferenza (duḥkha).
Secondo una teoria cosmologica comune a molte dottrine dell'induismo, e del buddhismo anche, l'universo ha evoluzione periodica: il tempo è circolare e non lineare. Ogni qual volta il tempo riprende, una nuova evoluzione dell'universo ha origine, un ulteriore ciclo cosmico (kalpa). Prima che il tempo riprenda, il cosmo è immanifesto, la prakṛti giace cioè in uno stato di quiete, ed è soltanto in questo stato che le sue tre componenti, le tre guṇa (rajas, sattva, tamas), si trovano in equilibrio fra loro. A causa del karma, ossia delle azioni compiute nei cicli precedenti dagli esseri che non ebbero raggiunto la liberazione (mokṣa), e destinati quindi a reincarnarsi, lo stato di equilibrio viene alterato: la prakṛti si mette, per così dire, in movimento e un nuovo ciclo prende inizio. Questo passaggio di stato che dà luogo a una nuova manifestazione del cosmo avviene dunque per cause etiche, e l'intero susseguirsi dei cicli avrà termine soltanto quando tutti gli esseri avranno conseguito la liberazione.
È ritenuta la più antica delle sei scuole che riconoscono l'autorità dei Veda, anche se in realtà il sistema Samkhya ne prescinde quasi totalmente.
Vaiśeṣika - वैशॆषिक
Vaisheshika è, nella nostra enumerazione, la terza delle sei scuole ortodosse della filosofia indù, i cosiddetti sistemi vedici, dell'antica India. Nei suoi primi stadi, il Vaiśeṣika era una filosofia indipendente, un sistema completo. Nel corso del tempo, il sistema Vaiśeṣika divenne simile nelle sue procedure filosofiche, nelle sue conclusioni etiche alla scuola Nyāya, che abbiamo già visto, ma mantenne la sua differenza nell'epistemologia, ovvero lo studio della natura e delle strutture logiche, e nella metafisica.La scuola di Vaisheshika è conosciuta e famosa per le sue intuizioni nel naturalismo. La modernità delle sue intuizioni lascia davvero stupefatti. È infatti una forma di atomismo nella filosofia naturale. Ha postulato che tutti gli oggetti nell'universo fisico sono riducibili a atomi (paramāṇu), e le proprie esperienze derivano dall'interazione della sostanza (la funzione degli atomi, il loro numero e le loro disposizioni spaziali), la qualità, l'attività, la comunanza, la particolarità e l'inerenza . Secondo la scuola Vaiśeṣika, la conoscenza e la liberazione erano realizzabili attraverso una completa comprensione del mondo dell'esperienza. Questo particolare aspetto l’avvicina allo yoga classico.
Lo studio delle categorie di conoscenza della scuola dell'induismo Vaiśeṣika, come il buddismo, accettava solo due mezzi affidabili per la conoscenza: la percezione e l'inferenza. La scuola Vaiśeṣika e il Buddhismo considerano entrambe le rispettive Scritture come mezzi incontestabili e validi per la conoscenza, con la differenza che le Scritture ritenute una fonte valida e affidabile fossero per Vaiśeṣika i Veda.
La forma di atomismo sposata da Vaisheshika, postula che la realtà sia composta da cinque sostanze ( terra, acqua, aria, fuoco e spazio). Ognuno di questi cinque elementi è di due tipi, paramāṇu e composito. Un Parmanu (Para significa oltre e Anu significa Atomo o particella molto piccola ma divisibile mentre il parmanu è indivisibile) è ciò che è indistruttibile, indivisibile e ha un tipo speciale di dimensione, chiamato "piccolo" (aṇu). Un composito è ciò che è divisibile in parmanu. Qualunque cosa percepisca l'essere umano è composita, e anche la più piccola cosa percettibile, cioè una macchia di polvere, ha parti, che sono quindi invisibili. I Vaiśeṣikas visualizzarono la più piccola cosa composita come una "triade" (tryaṇuka) con tre parti, ciascuna parte con una "diade" (dyaṇuka). Vaiśeṣikas credeva che una diade avesse due parti, ognuna delle quali è un atomo. Le dimensioni, la forma, le verità e tutto ciò che gli esseri umani sperimentano nel loro complesso sono una funzione del parmanu, del loro numero e delle loro disposizioni spaziali. Come dicevamo, lascia molto sorpresi l’analogia con la fisica e la chimica moderni in un sistema filosofico tanto antico, molti sono i punti di contatto con i naturalisti e gli atomisti greci, ma non ci spingeremo in queste acque.
Vaiśeṣika darshana fu fondata da Kaṇāda Kashyapa intorno al VI-II secolo AC. Sebbene il sistema Vaisheshika si sia sviluppato indipendentemente dalla scuola di Hinduismo di Nyaya, i due sono diventati simili e sono spesso studiati insieme. Nella sua forma classica, tuttavia, la scuola Vaishesika differiva dal Nyaya in un aspetto cruciale: dove Nyaya accettava quattro fonti di conoscenza valida, i Vaishesika, come detto, ne accettavano solo due, percezione e inferenza. Infine, può essere interessante indagare come, mentre l'induismo identifica sei Pramāṇa come mezzi affidabili per la conoscenza accurata e le verità, Vaiśeṣika consideri solo pratyakṣa (percezione) e anumāna (inferenza) come mezzi affidabili di conoscenza valida. Queste due categorie hanno infatti dei punti di contatto con il sistema dello yoga.
Pratyakṣa (प्रत्यक्ष) significa percezione. È di due tipi: esterna e interna. La percezione esterna è descritta come quella derivante dall'interazione di cinque sensi con gli oggetti mondani, mentre la percezione interna è descritta da questa scuola come quella del senso interiore, la mente. I testi antichi e medievali dell'induismo identificano quattro requisiti per una percezione corretta.
Anumāna (अनुमान) significa inferenza. Il processo di inferenza è descritto come raggiungere una nuova conclusione e verità da una o più osservazioni e verità precedenti applicando la ragione. Osservare il fumo e inferire il fuoco è un esempio di Anumana. Anche gli altri sistemi filosofici sposano questo processo conscitivo.
Vedanta - वेदान्त
Vedanta significa letteralmente "il fine dei Veda", riflettendo idee emerse dalle speculazioni e dalle filosofie contenute nelle Upanishad, nei Bhrama Sutra e nella Baghavad GIta, intesi come commentari a questi testi sacri. Il vedanta è quindi un complesso di dottrine filosofiche e religiose che si riallaccia al contenuto di testi a commento dei veda, sulla cui selezione c’e’ però disparità di interpretazione, annoverandone dalle dodici o tredici considerate “classiche”alle circa duecento conosciute, a seconda delle scuole.Non rappresenta una dottrina globale o unificante. Piuttosto è un termine generico per molte sub-tradizioni, che vanno dal dualismo al non-dualismo, tutte sviluppate sulla base di una connessione testuale comune chiamata Prasthanatrayi. Il Prasthanatrayi è un termine collettivo per le Principali Upanishad, i Brahma Sutra e la Bhagavad Gita.
Tutte le scuole Vedanta, nelle loro deliberazioni, si occupano delle seguenti tre categorie, ma differiscono nelle loro opinioni riguardo al concetto e alle relazioni tra loro: Brahman - la realtà metafisica finale, Ātman / Jivātman - l'anima o il sé individuale e Prakriti - il mondo empirico, universo fisico in continua evoluzione, corpo e materia.
Alcune delle sotto-tradizioni più conosciute del Vedanta includono l'Advaita (non-dualismo), il Vishishtadvaita (non-dualismo qualificato) e il Dvaita (il dualismo). La maggior parte delle altre sub-tradizioni vedantiche sono riassunte sotto il termine Bhedabheda (differenza e non differenza), ma non ci dilungheremo su questi aspetti.
L’aspetto fondamentale è che, nel tempo, il Vedanta adottò idee da altre scuole ortodosse come Yoga e Nyaya e, attraverso questo sincretismo, divenne la scuola più importante dell'induismo. Molte forme esistenti di Visnuismo, Shivismo e Shaktismo sono state significativamente modellate e influenzate dalle dottrine delle diverse scuole di Vedanta. La scuola Vedanta ha avuto un'influenza storica centrale sull'induismo.
Il vedanta si è storicamente articolato secondo alcune grandi scuole, nessuna interpretazione dei testi (VEDA) è prevalsa sulle altre, queste spaziano dal monismo o non-dualismo (Advaita) del filosofo Adi Shankara (VIII secolo), al dualismo qualificato o teismo (Vishi-stadvaita) XI-XII secolo di Ramanuja, al dualismo (Dvaita) del XIII secolo di Madhva, all'Acintya-Bheda-Abheda ("simultanea e inconcepibile differenza ed unità") di Caitanya Mahaprabhu. Tutte le scuole Vedānta, tuttavia, mantengono in comune un certo numero di principi:
-la trasmigrazione del Sé (Saṃsāra) e l'opportunità della liberazione dal ciclo delle rinascite (moksha);
-l'autorità dei Veda sulle modalità di liberazione;
-che il Brahman sia la causa materiale (upadana) che quella strumentale (nimitta) del mondo;
-che il Sé (Ātman) è l'agente dei propri atti (karma) e quindi il destinatario dei frutti o delle conseguenze delle azioni (phala).
L'influenza del Vedānta sul pensiero indiano è stata profonda. A causa della preponderanza di testi Advaita, in Occidente si ha spesso l'errata convinzione che Vedānta significhi Advaita, mentre questa corrente non-dualistica è solo una delle molte scuole vedantine, benché forse la più importante.
E’ purtroppo impossibile sintetizzare in questa sede il pensiero presente nelle circa venti Upanishad principali, o nella Baghavad Gita, ma possiamo brevemente illustrare il contenuto dei Brahma Sutra, proprio per la loro natura di riassunto delle Upanishad.
Badarayana riassunse e interpretò infatti gli insegnamenti delle Upanishad nei Brahma Sutra, chiamati anche il Vedanta Sutra. Badarayana riassunse gli insegnamenti delle Upanishad classiche e confutò le scuole filosofiche rivali nell'antica India. I Brahma Sutra gettarono le basi per lo sviluppo della filosofia Vedanta.
Sebbene attribuiti a Badarayana, i Brahma Sutra furono probabilmente composti da più autori nel corso di centinaia di anni. Le stime su quando i Brahma Sutra furono scritti variano dal 500 AC al 200 DC circa.
Il libro è composto da quattro capitoli, ciascuno diviso in quattro quarti o sezioni. Questi sutra tentano di sintetizzare i diversi insegnamenti delle Upanishad, tuttavia, la natura criptica degli aforismi ha richiesto commenti esegetici. Questi commenti hanno portato alla formazione di numerose scuole Vedanta, ognuna interpretando i testi a modo suo e producendo i propri commenti.
I sutra di Brahma consistono in 555 aforismi in quattro capitoli. Questi versetti riguardano principalmente la natura dell'esistenza umana e dell'universo e le idee sul concetto metafisico della Realtà Ultima chiamata Brahman. Il primo capitolo discute la metafisica della Realtà Assoluta, il secondo capitolo esamina e affronta le obiezioni sollevate dalle idee delle scuole ortodosse concorrenti delle filosofie indù così come delle scuole eterodosse come il Buddismo e il Giainismo, il terzo capitolo discute le categorie conoscitive e il percorso per acquisire le conoscenze spirituali liberatrici e l'ultimo capitolo afferma perché tale conoscenza è un importante bisogno umano. I commentari più famosi a questi versi sono 9 e sono stati scritti tra il 700 e il 1200 DC. I sutra nel testo possono essere letti, e sono stati letti, in modi completamente diversi. Alcuni commentatori leggono ogni riga separatamente, mentre altri a volte leggono due righe come un unico sutra, oppure altri trattano alcuni sutra come connessi contestualmente. Alcuni commentatori leggono l'ultima parola di un sutra come la parola di partenza per il prossimo. Alcuni trattano un versetto dato come Purva-paksha (punto di vista opposto) mentre altri leggono lo stesso verso come Siddhanta (dottrina proposta, o conclusione). Non è insomma facile orientarsi, ma le diverse scuole all’interno della tradizione Vedanta, hanno prodotto contesti coerenti ed organici.
Mīmāṃsā मीमांसा
Mimamsa è una parola sanscrita che significa "riflessione" o "indagine critica" e quindi si riferisce a una tradizione di pensiero brahminico che riflette sui significati di alcuni testi vedici e sull’esecuzione dei rituali. Questa tradizione è anche conosciuta come Pūrva-Mīmāṃsā per la sua attenzione ai primi (pūrva) testi vedici che trattano le azioni rituali, in modo simile al Karma-Mīmāṃsā, a causa della sua concentrazione sull'azione rituale (karma) . Questa particolare scuola è nota per le sue teorie filosofiche sulla natura del dharma, basate sull'interpretazione dei Veda, specialmente sui Brāḥmana sutra e sulla Saṃhita. La scuola Mīmāṃsā fu fondamentale e molto influente per tutte le scuole vediche, che erano anche conosciute come Uttara-Mīmāṃsā per la loro attenzione sulle parti "superiore” dei Veda. Mīmāṃsā investiga anche lo scopo dell'azione umana e lo fa con atteggiamenti diversi verso la necessità della prassi rituale.Mīmāṃsā ha diverse sotto-scuole, ciascuna definita dalla sua interpretazione della realtà. La sotto-scuola Prābhākara, che prende il nome dal filosofo Prabhākara del settimo secolo, descrisse i cinque mezzi affidabili per acquisire conoscenza: pratyakṣa o percezione; anumāna o inferenza; upamāṇa, per confronto e analogia; arthāpatti, l'uso della postulazione e la derivazione dalle circostanze; e śabda, la parola o la testimonianza di esperti affidabili passati o presenti. La sotto-scuola di Bhāṭṭa, dal filosofo Kumārila Bhaṭṭa, ha aggiunto un sesto mezzo al suo canone: anupalabdhi, non percezione, o prova dell'assenza di cognizione (ad es., la mancanza di polvere da sparo sulla mano di un sospetto).
La scuola di Mīmāṃsā consiste sia di dottrine ateistiche che teistiche, ma la scuola ha comunque mostrato scarso interesse nell'esame sistematico dell'esistenza degli dei. Piuttosto, sosteneva che l'anima è un'essenza spirituale eterna, onnipresente, intrinsecamente attiva, e focalizzata sulla conoscenza e la metafisica del dharma. Per la scuola Mīmāṃsā, il dharma significava rituali e doveri sociali, non deva, o dei, perché gli dei esistevano solo di nome. I Mīmāṃsakas sostenevano anche che i Veda sono "eterni, senza autore, infallibili", inoltre i vidhi vedici, ovvero le ingiunzioni e i mantra dei rituali, sono “krya” ovvero azioni prescrittive, e i rituali sono quindi di primaria importanza e merito. Hanno considerato le Upaniṣad e gli altri testi relativi alla conoscenza del sè e alla spiritualità come sussidiari, una visione filosofica in cui la scuola Vedānta non era ovviamente d'accordo.
Mīmāṃsā diede origine allo studio della filologia, la ricostruzione e la corretta interpretazione dei documenti letterari, e della filosofia del linguaggio. Mentre la loro profonda analisi della lingua e della linguistica influenzava le altre scuole dell'induismo, le loro opinioni non erano condivise. Mīmāṃsakas considerava che lo scopo e il potere del linguaggio fosse quello di prescrivere chiaramente il giusto, ovvero ciò che era corretto era giusto. Al contrario, la scuola vedanta ha esteso la portata e il valore del linguaggio come strumento per descrivere, sviluppare e derivare. Mīmāṃsakas considerava la vita procedurale ordinata, guidata dalla legge, come scopo centrale e la nobile necessità del dharma e della società, e il sostentamento divino (teistico) era in funzione di tale fine.
La scuola Mīmāṃsā è una forma di realismo filosofico. Un testo chiave della scuola Mīmāṃsā è il Mīmāṃsā Sūtra di Jaimini.
Nell’India vedia, ma anche moderna, l’importanza del ritualismo è estrema: solo l’espletazione regolare del sacrificio garantisce la persistenza dell’armonia cosmica (dharma) e del buon ordine sociale. Ha una filosofia dettagliata relativa al rituale, al culto e alla condotta etica, che si è sviluppata nella filosofia del karma.
Generalmente non si ritiene che questa scuola influenzi più di tanto le altre, compreso lo yoga. Personalmente vedo però un legame tra il porre l’accento su di un ritualismo codificato, sulla perfezione e ripetizione delle stesse azioni giornaliere e periodiche, proprio della scuola Mimamsa, e la pratica quotidiana dello yoga secondo alcune sue scuole. L’azione, la parola, il mantra, acquisiscono potere nella loro perfezione e corretta esecuzione.
Yoga - योग
Avendo già pubblicato integralmente la traduzione e il commento dei sutra sullo yoga di Patanjali, non ripercorreremo la via conoscitiva proposta da questo. Ci limitiamo a sottolineare come in India lo yoga sia uno dei sei sistemi per raggiungere la conoscenza, per indagare la realtà, sistemi che si permeano a vicenda, ma che hanno anche una loro assoluta autonomia. Darshana significa in realtà “visione” e le 6 darshana sono i punti di vista che l’india e l’induismo hanno prodotto sulla realtà. Questo tipo di schematizzazione universalmente riconosciuta e questa unitarietà di base su alcuni concetti, manca forse alla nostra filosofia o storia della filosofia, ma è solo uno dei molti aspetti differenti.
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