di Marco Sebastiani
Introduzione
La posizione Natarājāsana (La Posizione del Signore della Danza) si configura come una delle manifestazioni più significative e visivamente evocative del nesso intrinseco tra la pratica dello yoga moderno e il vasto universo della mitologia induista. Essa non è semplicemente un omaggio posturale; è l'incarnazione cinetica e dinamica di Śiva Natarāja, figura centrale dello Śivaismo e del pantheon indiano, venerato come il Signore della Danza Cosmica. La sua diffusione nelle scuole di yoga occidentali e la sua presenza iconografica in contesti persino scientifici (come vedremo, il CERN) testimoniano la potenza transculturale di questo archetipo. L'obiettivo di questa analisi è esplorare le profonde stratificazioni storiche, teologiche e culturali che hanno reso il simbolo di Natarāja un fenomeno globale, dalla sua origine nel Śaiva Siddhānta fino alla sua recontestualizzazione come āsana del Ventesimo secolo.
di Marco Sebastiani
Introduzione: Vasiṣṭhāsana tra Mito, Filosofia e Pratica
L'universo delle āsana, le posture dello yoga, è comunemente percepito come una disciplina eminentemente fisica, volta al benessere corporeo e alla gestione dello stress. Tuttavia, una lettura più profonda rivela che queste posizioni non sono semplici esercizi, ma incarnazioni simboliche di un ricco e millenario patrimonio mitologico e filosofico. Questo articolo si propone di esplorare la figura esemplare di Vasiṣṭhāsana, nota anche come la "posizione della panca laterale", per disvelare le stratificazioni di significato che la rendono una vera e propria meditazione in movimento.
Il nome sanscrito della postura non rimanda, come suggerirebbe la sua forma, a un semplice asse o panca laterale, ma è un omaggio a una delle figure più venerate della tradizione indiana: il saggio Vasiṣṭha [3, 4, 5]. Il termine vasiṣṭha è un superlativo che significa "il più eccellente" o "il più saggio", mentre āsana denota, in un contesto yogico, una "postura", spesso inteso come posizione per la meditazione. La scelta di attribuire il nome di un così eminente maestro a una postura complessa non è casuale, ma suggerisce che il suo significato trascenda l'aspetto fisico, veicolando un profondo insegnamento spirituale.
Lo sviluppo dell'Haṭha Yoga ha portato a una complessa nomenclatura che attinge dal vasto pantheon induista e dalla sua iconografia. Ogni posizione diventa un racconto, una metafora di un archetipo, una divinità o un'impresa mitologica, trasformando la pratica fisica in un rituale di incorporazione simbolica [6, 7]. Attraverso l'analisi della figura mitologica del saggio Vasiṣṭha, del trattato filosofico a lui attribuito, lo Yoga Vāsiṣṭha, e del profondo simbolismo della postura stessa, questo articolo intende mostrare come Vasiṣṭhāsana sia l'incarnazione di una filosofia di saggezza e non-attaccamento, l'ideale del liberato (o illuminato) in vita (jīvanmukta) [3, 8].
Il Saggio Vasiṣṭha, Archetipo del Precettore Spirituale
La Figura del Rishi (ṛṣi)
Vasiṣṭha è una figura centrale e antica nel pantheon induista. È annoverato tra i Saptarṣi, i sette grandi ṛṣi o "veggenti" menzionati fin dal Rigveda, il più antico testo sacro dell'India [3, 9, 10]. Questi saggi sono venerati come "fari che illuminano il mondo" con la loro profonda conoscenza e i loro poteri spirituali [10]. La tradizione li classifica in tre categorie principali: i devarṣi, che vivono tra le divinità; i brahmarṣi, di origine sacerdotale; e i rājarṣi, di origine regale [11]. Vasiṣṭha, per la sua natura complessa e il suo percorso spirituale, incarna l'ideale del brahmarṣi, il saggio per eccellenza.
Le origini di Vasiṣṭha, raccontate in diversi testi, ne sottolineano la natura archetipica e ultraterrena. Secondo i Purāṇa, egli fu in una delle sue nascite un manasaputra, ovvero un "figlio della mente" creato direttamente dal dio Brahmā [9]. In un'altra narrazione, la sua origine è legata a una complessa vicenda che lo vede rinascere dal seme dei dèi Mitra e Varuṇa, raccolto in un'urna dopo che questi avevano visto la ninfa celeste Urvaśī [9]. La pluralità dei suoi racconti di origine indica la sua straordinaria importanza e la sua presenza in molteplici cicli cosmici e narrativi, consolidando il suo ruolo di pilastro della tradizione vedica e del dharma.
Vasiṣṭha nel Rāmāyaṇa
Vasiṣṭha non solo fu il "precettore" di Rāma [3] ma anche in un ruolo di più ampia portata: egli fu il purohita, il sacerdote di corte e consigliere spirituale dell'intera dinastia di Ikṣvāku, a cui appartenevano Rāma e suo padre, il re Daśaratha [3, 9]. La relazione tra Vasiṣṭha e Rāma non è quindi una semplice storia di istruzione individuale, ma una profonda metafora del ruolo cruciale che la saggezza spirituale riveste nel mantenimento dell'ordine sociale e politico.
Nella cultura indiana, il purohita non è solo un sacerdote cerimoniale; è il garante del benessere e della prosperità del regno. La sua sapienza e il suo potere spirituale sono considerati la vera fonte della legittimità e del successo del re. La scelta di Vasiṣṭha come guida per il giovane Rāma, che inizialmente si mostrava svogliato e apatico [3], non è un atto di formazione personale, ma una mossa strategica per assicurare che il futuro regnante fosse in sintonia con i principi cosmici del dharma. La saggezza di Vasiṣṭha non era destinata solo a liberare l'anima di Rāma, ma a infondere la rettitudine nel cuore del regno che avrebbe governato.
La Rivalità con Viśvāmitra: Una Storia di Trasformazione
Una delle narrazioni più celebri legate a Vasiṣṭha è la sua leggendaria rivalità con il saggio Viśvāmitra [9, 12, 13]. Analizzeremo in dettaglio Visvamitrasana nell’articolo dedicato a questa posizione. Questo conflitto, lungi dall'essere una semplice contesa personale, costituisce una delle parabole più significative della filosofia indiana sulla natura del potere. Viśvāmitra, all'epoca un potente re (rājarṣi), desiderava ardentemente possedere la vacca divina Nandini, che apparteneva a Vasiṣṭha e poteva esaudire ogni desiderio materiale [9, 13]. Di fronte al rifiuto del saggio, Viśvāmitra usò il suo vasto esercito per tentare di sottrarre la vacca con la forza. Ma Vasiṣṭha, senza ricorrere alle armi, sbaragliò l'intero esercito reale usando unicamente il potere del suo brahmadaṇḍa, un semplice bastone reso invincibile dalla sua profonda penitenza e conoscenza [12, 13].
L'umiliazione subita spinse Viśvāmitra a rinunciare alla sua forza regale e a intraprendere un'austera e lunga penitenza (tapas) per superare Vasiṣṭha in potere spirituale e diventare egli stesso un brahmarṣi [13]. La narrazione vuole evidenziare come la forza delle armi e il potere materiale siano effimeri e inutili di fronte al potere incommensurabile della conoscenza spirituale e del distacco [12]. La trasformazione di Viśvāmitra, da re mosso dall'ego e dal desiderio a saggio che conquista le sue passioni, offre un'illustrazione perfetta della categoria dei rājarṣi [11] e del percorso che porta un individuo a trascendere i suoi limiti terreni. Il conflitto si conclude non con una vittoria schiacciante, ma con il reciproco riconoscimento e la fine dell'inimicizia, dimostrando che la vera saggezza si manifesta nel riconoscimento della trasformazione altrui.
Lo Yoga Vāsiṣṭha, un Trattato di Filosofia Non-Dualista
Le vicende legate a Vasiṣṭha e al suo ruolo di precettore di Rāma trovano la loro massima espressione nel testo filosofico a lui attribuito, lo Yoga Vāsiṣṭha [14, 15]. Questo testo, uno dei più vasti della tradizione indiana con oltre 29.000 versi, è un'opera post-classica datata tra il VI e il XII secolo d.C. [14]. Sebbene la tradizione ne attribuisca la paternità a Vālmīki, l'autore del Rāmāyaṇa, gli studiosi ne discutono l'effettiva autorialità e datazione [15]. Il testo si articola in sei sezioni tematiche progressive, partendo dal distacco (Vairāgya) fino alla liberazione (Nirvāṇa) [14].
Il concetto cardine dello Yoga Vāsiṣṭha ruota intorno al presupposto che l'intero mondo fenomenico, con le sue leggi e i suoi oggetti, è una "creazione della mente" [16], un "gioco della Coscienza" [16]. Questa visione non nega l'esistenza del mondo, ma ne rivede la natura. Il mondo non è una realtà oggettiva e separata, ma una proiezione, un'illusione ottica analoga al blù del cielo [17, 18]. La sofferenza umana non deriva da cause esterne, ma dall'ignoranza di questa verità fondamentale. L'obiettivo spirituale non è quindi la fuga dal mondo, ma un radicale cambiamento di prospettiva, un "risveglio" dal sogno della mente [16].
A differenza di altre tradizioni che enfatizzano il fatalismo, lo Yoga Vāsiṣṭha esalta l'importanza della ragione (yukti) e dell'impegno personale (puruṣārtha) [17, 19]. Il testo sfida il lettore a interrogare le proprie credenze e a non accettare passivamente le verità spirituali senza una profonda indagine personale. Si posiziona in una complessa dialettica tra l'azione (karma) e la conoscenza (jñāna), suggerendo che la liberazione non è raggiunta da una delle due vie singolarmente, ma dalla loro armoniosa unione [19]. L'azione deve essere guidata dalla conoscenza, e la conoscenza si perfeziona nell'azione. Questa visione equilibrata fornisce un fondamento teorico robusto per l'ideale del liberato in vita, che non si ritira dal mondo, ma vi opera con saggezza.
Vasistha insegna a Rama: la liberazione il non-attaccamento
Il saggio Vasiṣṭha insegna a Rāma il concetto di jīvanmukta, l'individuo che raggiunge la liberazione (mukti) pur vivendo in un corpo fisico [3, 8, 15, 20]. Tale figura è l'ideale supremo. Il jīvanmukta non è vincolato dal karma passato accumulato in vite precedenti (sañcita-karma), che è stato "bruciato dal fuoco della conoscenza" [20]. Allo stesso modo, non crea nuovo karma (āgāmi-karma) perché agisce nel mondo senza il senso dell'io che agisce (kartṛtva) [20]. La sua esistenza fisica è sostenuta unicamente dal prārabdha-karma, il karma che ha già iniziato a manifestarsi e che deve esaurirsi [20]. L'idea è illustrata dall'analogia classica del cacciatore che scaglia una freccia: anche se si rende conto che il suo bersaglio non è una tigre ma una mucca, la freccia ormai scoccata seguirà la sua traiettoria fino a colpire l'animale [20]. Allo stesso modo, il corpo del jīvanmukta continua a vivere finché l'impulso del prārabdha-karma non si esaurisce.
La sintesi dell'intera filosofia è racchiusa in una delle frasi più significative dello Yoga Vāsiṣṭha: "Oh Rāma, agisci come se tutto quello che fai comportasse un mondo di differenza, pur sapendo che tutto quello che fai non fa alcuna differenza per il mondo" [3]. Questo aforisma non è la perfetta espressione della tensione tra l'azione etica nel mondo (karma yoga) e la consapevolezza metafisica che il mondo e l'azione stessa sono un'illusione della Coscienza [8]. Il liberato in vita non si ritira in apatia, ma agisce con totale impegno e compassione, pur mantenendo una mente distaccata dal risultato. L'azione non è un mezzo per ottenere un risultato personale, ma un'espressione spontanea e disinteressata della sua natura liberata. La sua vita è un "gioco" (līlā) della Coscienza che si manifesta nel mondo.
Questo approccio si basa sul concetto fondamentale di non-attaccamento, o vairāgya. È cruciale distinguere il non-attaccamento dall'apatia o da un distacco emotivo insensibile. L'apatia è l'indifferenza che porta all'inazione, la non-attaccamento è l'azione piena di cuore che accetta il risultato, sapendo che non si può controllare l'esito [21]. È l'opposto dell'accumulazione fisica e mentale di oggetti, idee e desideri, un principio noto anche come aparigraha, il quinto yama negli Yoga Sūtra di Patañjali [22, 23]. La serenità del jīvanmukta è radicata nella comprensione che l'attaccamento a persone, ideali o risultati specifici è la causa della sofferenza [21].
L'ideale del non-attaccamento è presente in modo trasversale in diverse tradizioni filosofiche indiane, pur essendo affrontato con metodologie e priorità distinte. Di seguito, si propone una tabella comparativa per illustrare le sfumature concettuali nei tre testi canonici: gli Yoga Sūtra, la Bhagavad Gītā e lo Yoga Vāsiṣṭha.
Il Simbolismo di Vasiṣṭhāsana
L'analisi filosofica e mitologica trova il suo culmine nel simbolismo della postura stessa. Vasiṣṭhāsana è una posizione di "potenza" ed "equilibrio", e l'analisi anatomica conferma che rafforza braccia, spalle, addome e gambe. Il valore profondo della posa risiede nel suo significato allegorico.
Il nome Vasiṣṭha, che significa "il più saggio" o "il più eccellente" [4, 5], è direttamente legato alla forma fisica della postura. Mantenuta su una mano e un piede, la posa proietta il corpo verso l'alto, con un braccio teso verso il cielo [3]. Questa elevazione fisica incarna l'ascesa spirituale e il tentativo di unione con il divino. Il corpo proteso verso l'alto rappresenta la ricerca della saggezza, la stessa che Vasiṣṭha ha impartito a Rāma.
La postura di Vasiṣṭhāsana non solo rappresenta l'ascensione, ma anche un profondo simbolismo geometrico la formazione di un "triangolo perfetto" [3]. Il triangolo è una figura archetipica di grande importanza nella filosofia indiana [30]. I triangoli, con il loro triplice carattere, rappresentano le tre forze della natura (tamas, rajas e sattva) e le tre divinità della Trinità induista (Brahmā il creatore, Viṣṇu il preservatore e Śiva il distruttore) [31]. Nella postura, la base a terra (una mano e un piede) simboleggia la stabilità nel mondo materiale, mentre il vertice che si protende verso l'alto rappresenta l'unione dell'individuo con la Coscienza universale.
La stabilità precaria richiesta per mantenere la posa del plank laterale simboleggia la condizione umana in un mondo in perenne mutamento [29]. La capacità del praticante di trovare l'equilibrio e la calma interiore in questa situazione di tensione riflette la stabilità mentale del jīvanmukta, che, sebbene immerso nelle "coppie di opposti" come il successo e il fallimento, il piacere e il dolore [8], rimane imperturbabile. La postura diventa così un atto di incorporazione: il corpo sperimenta la tensione e il disequilibrio, ma la mente rimane stabile e non-attaccata, in perfetta risonanza con gli insegnamenti di Vasiṣṭha.
Conclusione: La Postura come Meditazione in Azione
L'analisi di Vasiṣṭhāsana rivela una profonda e sottile connessione tra mito, filosofia e pratica corporea. La postura, sia essa antica o moderna nelle versioni oggi più praticate, non è una ginnica isolata, ma il punto di convergenza di secoli di pensiero religioso e spirituale. Essa incarna la figura del saggio Vasiṣṭha, il cui insegnamento ha trasformato un principe apatico in un re illuminato, e i principi filosofici del non-attaccamento e del jīvanmukti descritti nel trattato a lui attribuito.
La pratica di Vasiṣṭhāsana può essere interpretata come una forma di meditazione in azione. L'equilibrio precario richiesto simboleggia la nostra esistenza in un mondo effimero, mentre la stabilità della posa, una volta raggiunta, riflette la serenità interiore del jīvanmukta [29]. La posizione ci invita a coltivare la saggezza, a distinguere tra l'effimero e l'eterno, e a vivere nel mondo con pienezza, mantenendo un cuore non-attaccato e una mente serena [8, 21]. In questo senso, lo yoga moderno, quando praticato con una consapevolezza del suo profondo contesto storico-religioso, si rivela non una mera ginnastica, ma un potente strumento di realizzazione spirituale.
Bibliografia
- Sebastiani, Marco, Yoga Sutra: antica spiritualità e moderna pratica, Porto Seguro, 2019.
- Feuerstein, Georg, The Yoga Tradition: Its History, Philosophy and Practice, Hohm Press, 2001.
- Venkatesananda, Swami, Vasistha's Yoga, Motilal Banarsidass Publ., 2003.
- Atreya, B.L., The Philosophy Of The Yoga Vasistha, Darshana Printers, Moradabad, 1981.
- The Yoga-Vasistha, tradotto da V. L. Metta, London, 1901.
- Mallinson, James e Singleton, Mark, Roots of Yoga, Penguin Classics, 2017.
- Sastri, A., The Yoga Vasistha, Sankaracharya Mutt, Bangalore, 1925.
- O'Flaherty, Wendy Doniger, Hindu Myths, Penguin Books, 1975.
- Dimmitt, Cornelia e van Buitenen, J.A.B., Classical Hindu Mythology: A Reader in the Sanskrit Puranas, Temple University Press, 1978.
- Daniélou, Alain, The Myths and Gods of India, Inner Traditions, 1991.
- Brockington, J. L., The Sacred and the Secular in the Mahābhārata, Springer, 1990.
- Singh, R. P., The Concept of Dharma in the Mahabharata, Abhinav Publications, 1988.
- Peterlini, Sergio (a cura di), Yoga Vasishtha. Il supremo insegnamento, Edizioni Punto d'Incontro, Lavis, 2023.
- Torella, Raffaele, Il pensiero dell'India. Un'introduzione, Carocci Editore, Roma, 2008.
- Atreya, B.L., The Yoga Vasistha and its Philosophy, Oriental Books Reprint Corporation, New Delhi, 1981.
- The Yoga Vasistha, tradotto da V. Subramanian, Ramana Maharshi Center, 1984.
- Venkatesananda, Swami, Vasistha's Yoga, State University of New York Press, 1993.
- Dasgupta, Surendranath, A History of Indian Philosophy - Sankara School of Vedanta, Yogavasistha and Bhagavadgita (Vol-2), Cambridge University Press, 1922.
- Potter, Karl H., The Encyclopedia of Indian Philosophies: Advaita Vedānta Up to Śaṃkara and His Pupils, Motilal Banarsidass, 1981.
- Woods, James Haughton, The Yoga-System of Patañjali, Harvard University Press, 1914.
- Miller, Barbara Stoler, The Yoga Sutras of Patanjali, Bantam Books, 1996.
- Iyengar, B.K.S., Light on the Yoga Sutras of Patanjali, Thorsons, 1993.
- Larson, Gerald James, Classical Samkhya: An Interpretation of its History and Meaning, Motilal Banarsidass, 1969.
- Taimni, I. K., The Science of Yoga, The Theosophical Publishing House, 1961.
- Deutsch, Eliot, The Bhagavad Gita: A New Translation, Holt, Rinehart and Winston, 1968.
- Zaehner, R.C., The Bhagavad-Gita, Oxford University Press, 1969.
- Albanese, Marilia, Miti e storie, Rcs, Milano, 2017.
- Kaminoff, Leslie e Matthews, Amy, Yoga Anatomy, Human Kinetics, 2007.
- Rawson, Philip, The Art of Tantra, New York Graphic Society, 1973.
- Zimmer, Heinrich, Myths and Symbols in Indian Art and Civilization, Princeton University Press, 1946.
- Smith, V.A., A History of Fine Art in India and Ceylon, Clarendon Press, 1911.
- Coomaraswamy, Ananda K., History of Indian and Indonesian Art, Dover Publications, 1965.
- Randhawa, M.S. e Galbraith, J.K., Pahari Painting, Lalit Kala Akademi, 1957.
- Welch, Stuart Cary, Indian Paintings from the Mughal Period, Metropolitan Museum of Art, 1976.
- Sharma, Arvind, A History of Hindu Thought: Veda to Vedanta, Orient Longman, 2000.
- Singh, Jaideva, A History of Indian Philosophy: Vol. I, Motilal Banarsidass, 1963.
- Rao, S. N., Yoga Vasistha: The Story of a Spiritual Hero, Advaita Ashrama, 1980.
- White, David Gordon, The Alchemical Body: Siddha Traditions in Medieval India, University of Chicago Press, 1996.
- Daniélou, Alain, The Myths and Gods of India, Inner Traditions, 1991.
di Enrico Casagrande
Panoramica
Ananda Marga Pracaraka Samgha (organizzazione per la diffusione del sentiero della beatitudine), conosciuta più semplicemente come Ananda Marga, è un movimento spirituale di respiro internazionale che ha avuto origine nel 1955 grazie alla visione di Prabhat Ranjan Sarkar (1921-1990), meglio noto come Shrii Shrii Anandamurti. Nato nel Bengala Occidentale, Anandamurti sviluppa un sistema integrato che coniuga pratiche spirituali, come la meditazione e lo yoga, con un impegno sociale e morale che mira al miglioramento e al benessere dell’individuo e della collettività. Il movimento incorpora anche principi del Tantra, una tradizione spirituale che sottolinea l’importanza dell’unione tra l’individuo e l’universo, facendo delle pratiche corporee e mentali strumenti di elevazione interiore. Il movimento, che abbraccia principi di spiritualità universale, giustizia sociale e sviluppo integrale, propone un cammino di crescita interiore che stimola un attivo impegno verso una trasformazione della società lungo direttrici di equità. La sua filosofia, che unisce il benessere individuale a un più ampio impegno collettivo, trova aderenti in tutto il mondo, facendo di Ananda Marga una delle più significative espressioni spirituali di origine indiana contemporanee.
Anandamurti
L’agiografia racconta che Prabhat Ranjan Sarkar inizia il suo percorso spirituale fin da giovane, nutrendo una profonda inclinazione verso le pratiche meditative e l’auto-realizzazione. Nel 1939, lascia Jamalpur e si trasferisce a Calcutta per studiare al Vidyasagar College dell’Università di Calcutta. Qui, soggiorna nella casa dello zio materno, Sarat Chandra Bose, fratello di Subhas Chandra Bose (1897 – 1945), leader dell’indipendenza indiana e militare vicino all’Asse nel corso della Seconda guerra mondiale. La morte del padre obbliga Sarkar a interrompere gli studi e a tornare a lavorare per sostenere la famiglia. Tra il 1944 e i primi anni ’50, lavora come impiegato nel quartier generale delle ferrovie indiane a Jamalpur nel Bihar. Durante questo periodo, inizia ad insegnare le sue tecniche di meditazione a un gruppo di colleghi. Nel 1955, l’ispirazione di Sarkar si concretizza con la fondazione di Ananda Marga, che si diffonde in India prima per poi diventare globale grazie soprattutto ai giovani hippies occidentali alla scoperta dei saperi spirituali dell’India.
L’organizzazione
Nel corso degli anni, Ananda Marga crea una rete di centri di yoga e meditazione, scuole, ospedali e altre iniziative sociali in tutto il mondo. Il movimento promuove anche programmi di beneficenza, distribuzione di cibo e soccorso alle persone in difficoltà. L’aspetto che caratterizza maggiormente il movimento è l’integrazione tra spiritualità e responsabilità sociale. I membri sono incoraggiati a seguire un cammino di crescita interiore, ma anche a impegnarsi attivamente per migliorare le loro comunità e l’intera umanità. Anche la struttura organizzativa è pensata per essere altamente efficace, con una suddivisione in diversi settori, ognuno dei quali è guidato da un Segretario Settoriale. Ogni settore è suddiviso a sua volta in regioni e dipartimenti che si occupano di gestire tutte le attività spirituali e sociali del movimento. Le figure di riferimento come gli Acharya, i leader spirituali che guidano le pratiche quotidiane dei membri, rivestono un ruolo centrale all’interno di Ananda Marga.
Gli Acharya, sono Dada (fratello) e Didi (sorella). Si tratta di monaci e monache che dedicano la loro vita al servizio di Ananda Marga, ricoprendo funzioni spirituali e di guida nei centri locali. Conducono una vita di ascetismo e celibato, focalizzandosi sulla guida spirituale e sulla gestione delle pratiche quotidiane. Esistono anche Acharya di famiglia, che coniugano la propria vita spirituale con le responsabilità familiari. Il grado più elevato tra gli Acharya è quello di Purodha. In particolare, il Purodha Pramukha ricopre la carica di guida spirituale dell’Ananda Marga.
La dottrina
Anandamurti descrive l’universo come il frutto di un impulso proveniente dalla mente cosmica, contenente l’intero cosmo. Con il processo evolutivo degli esseri viventi, la vita individuale – proiezione esterna della mente cosmica – avvia un percorso di ritorno, seguendo modalità diverse a seconda delle entità. Ogni essere è unico, ma tutti perseguono lo stesso scopo: ricongiungersi alla propria origine, la Coscienza Infinita. Così, il flusso cosmico si sviluppa dalla coscienza illimitata, passando per quella limitata, e tornando infine alla coscienza illimitata, che si raggiunge attraverso la meditazione. Il quadro cosmologico di Ananda Marga si basa sulla convinzione di una forza cosmica infinita, onnipresente e onnipotente, conosciuta come Parama Purusha (la Coscienza Suprema):
“Per scopi filosofici, la Coscienza viene arbitrariamente assegnata al genere maschile e conosciuta come Purusha, o Shiva. Egli è il nucleo e l’entità testimone dell’universo. La Sua Forza è assegnata al genere femminile ed è conosciuta come Prakrti, o Shakti. Lei è la forza che – sotto la direzione di Purusha – trasforma una parte di Lui nell’universo. Lei è una forza cieca e resta sempre sotto il Suo controllo. Lui non agisce, ma permette a Lei di agire. Lui è il testimone e ciò che è testimoniato, mentre Lei è l’azione.”
Anandamurti afferma che l’essenza del tantra è la realizzazione dell’unità con il cosmo e la trasformazione dell’esistenza mondana in una dimensione spirituale. Al cuore del tantra di Ananda Marga vi è la convinzione che il mondo fisico non sia separato dal divino, ma ne sia un’espressione. Diversamente dalle tradizionali visioni ascetiche che promuovono la rinuncia, il movimento sostiene che la liberazione spirituale (moksha) possa essere raggiunta impegnandosi pienamente nel mondo.
Nonostante l’enfasi sulle pratiche tantriche nell’insegnamento di Anandamurti, l’indologo André Padoux non vede una connessione diretta con le tradizioni precedenti di questo insieme di saperi. La sua critica si concentra sul contrasto tra l’approccio di Anandamurti, che promuove un impegno sociale trasformativo, e le pratiche tradizionali, più focalizzate sull’esperienza spirituale individuale. Inoltre, le dinamiche storiche del movimento tendono a rafforzare la separazione dalle tradizioni classiche.
Il cuore della pratica di un margi (adepto) è, comunque, la meditazione, proprio come nelle tradizioni tantriche. La tecnica viene trasmessa gratuitamente da un Acharya, che presta attenzione alle specificità e al livello di esperienza del singolo. Le tecniche meditative diventano più articolate con l’avanzare della pratica, e durante questo cammino l’adepto riceve un supporto regolare dall’Acharya, che lo guida nel suo sviluppo spirituale.
Il movimento oggi
Ananda Marga è attiva in diverse parti del mondo, con migliaia di membri e un forte impegno in numerosi ambiti. Le sue attività si estendono a progetti sociali e comunitari che vanno dalla distribuzione del cibo alla creazione di ospedali e scuole. Il movimento promuove anche una teoria economica innovativa, la PROUT (Progressive Utilization Theory), che mira a creare una società giusta ed equilibrata, dove le risorse sono distribuite in modo equo secondo le finalità della stessa organizzazione.
Il movimento è strutturato in vari settori e suddiviso geograficamente in nove principali aree globali, ciascuna gestita da un segretario di settore. I settori sono ulteriormente divisi in regioni e dipartimenti, che operano a livello locale per promuovere le attività dell’organizzazione. Ogni livello è gestito da Wholetimers (lavoratori a tempo pieno) che si dedicano gratuitamente al servizio del movimento.
Volendo osservare la realtà di Ananda Marga in prospettiva futura, è inevitabile considerare che la vita del movimento dipende dall’impegno dei suoi aderenti, che sono chiamati a promuovere l’insegnamento e il servizio al prossimo. Come ogni movimento spirituale, anche Ananda Marga dovrà affrontare le sfide della modernità, della globalizzazione e dei cambiamenti sociali, rispondendo alle esigenze dei tempi con flessibilità, pur mantenendo, nei limiti del possibile, fede ai suoi principi fondanti.
Introduzione di Marco Sebastiani
Non siamo più supiti nel vedere quanto si è diffuso lo yoga in Occidente, ormai è una realtà consolidata del nostro tempo. Alle volte è popolare per le ragioni sbagliate, ma va bene lo stesso. Voglio dire che a volte le persone praticano perchè trovano sollievo da una vita che non è adatta a loro. Se trovano sollievo va tutto bene, ma si dovrebbe ragionare sulle cause che originano lo stress, oltre a curarne i sintomi. Anche in questa ricerca lo yoga può fornire una chiave importante, oltre ad essere sicuramente un farmaco immediatamente efficace.
Per la giornata mondiae dello yoga, venerdì 21 giugno 2024, riprendiamo una bella considerazione di Sadhguru che ci ricorda della centralità del corpo nella pratica.
Sadhguru: Sono molte le ragioni per cui lo yoga sta diventando popolare, una di queste è che aiuta a realizzare alcuni aspetti fondamentali di noi stessi. Una volta, in una scuola materna, l'insegnante chiese agli alunni: “Se mi metto in piedi sulla testa, noterete che il mio viso diventa rosso perché il sangue confluisce nella testa. Ma questo non succede quando sto in piedi. Perché?.” Un bambino rispose: “Perché i piedi non sono vuoti”.
Il tuo corpo è come un barometro, se sai come osservarlo, ti dice tutto di te. Non l’idea fantasiosa che ti sei fatto di te stesso, ma i fatti reali che ti riguardano. La mente è troppo ingannevole, ogni giorno ti racconta qualcosa di diverso su chi sei. Mentre invece, se sai leggere il tuo corpo, ti dice tutto così com’è, il tuo passato, presente e futuro, in un certo senso. Ecco perché lo yoga di base inizia dal corpo. Per prima cosa, al mattino, ci si mette in piedi sulla testa per capire almeno cosa è vuoto e cosa è pieno.
Quindi, perché lo yoga sta diventando così popolare ovunque? Molte altre cose vanno e vengono con il cambiare delle mode, ma lo yoga è sopravvissuto per migliaia di anni e sta guadagnando terreno. Anche se viene trasmesso in modo molto approssimativo e spesso distorto, continua a resistere. Perché? Uno dei motivi della sua crescente popolarità è la trasmissione su larga scala dell'istruzione. Oggi abbiamo più capacità intellettiva su questo pianeta che mai prima d’ora. Di conseguenza, quando l'intelletto diventa più forte, le persone cercano soluzioni logiche a tutto. Più si diventa logici, più si diventa dipendenti dalla scienza, e il risultato della scienza è la tecnologia. A mano a mano che l'attività dell'intelletto si rafforza nel mondo, col tempo sempre più persone si rivolgeranno allo yoga, che diventerà il modo più popolare di ricercare il benessere.
Quando si tratta della tua mente, non sai esattamente cosa ti sta dicendo. Ciò che la tua mente dice potrebbe sembrarti molto ragionevole e diretto. Ma in altri contesti può sembrare del tutto fuori luogo. Soprattutto quando si parla di una dimensione che va oltre il tuo attuale livello di percezione, la mente è una guida terribile perché dice cose diverse, ti fa credere in cose che non esistono e ti fa ignorare cose che sono proprio lì davanti ai tuoi occhi.
Ecco perché lo yoga ha adottato un metodo completo per avvicinarsi al processo spirituale attraverso il corpo, l'energia, il respiro, le emozioni e, naturalmente, l'intelligenza - ma senza dipendere dall'intelletto, perché l'intelletto parte sempre della prospettiva in cui si trova, che per l'intelletto rappresenta l'assoluto. Così impariamo a fidarci di più del corpo. Se riesci a considerare il corpo come uno strumento e impari a usarlo come tale, diventerà uno strumento molto potente. Può dirti tutto su ciò che c'è qui e oltre. Il corpo è affidabile, la mente no.
La tua mente filosofeggia. “A cosa serve piegare il corpo e fare tutte queste sciocchezze? Ti porterà in paradiso e all'illuminazione?”. Il corpo non ti inganna mai. Se sviluppi questo corpo, se lo liberi dalle identificazioni e dagli attaccamenti che hai creato per lui, se impari a guidarlo come uno strumento, è lo strumento più fantastico e più potente su questo pianeta. Il processo dello yoga serve proprio a realizzare e recuperare questa macchina affinché tu la possa usare.
di Enrico Casagrande
Dalla laurea in fisica a Shankara
Nel decennio compreso tra il 1968 e il 1978, un’ampia fetta della generazione di giovani occidentali, particolarmente gli hippie della middle - class bianca, gli aderenti al complesso network della New Age, personaggi dello spettacolo accomunati tra loro dalla fascinazione per le proposte della spiritualità orientale scoprono lo yoga e le tecniche di meditazione provenienti da maestri dell’India. Tra gli elementi di novità ai quali costoro guardano con particolare interesse vi è la Meditazione Trascendentale nota altrimenti con la sigla TM (Transcendental Meditation). La tecnica è portata oltreoceano da un indiano chiamato Maharishi Mahesh Yogi (1918 – 2008), il grande saggio yogi Mahesh. Nato Mahesh Prasad Varma, il futuro maestro della TM ottiene nel 1942 una laurea in fisica presso l’Università di Allahabad. Il giovane si interessa presto ai temi spirituali divenendo allievo di Swami Brahmananda Sarasvati shankaracharya di Jyotir Math, nello stato dell’India settentrionale dell’Uttarakhand, che però non lo può designare quale suo successore per il fatto che Varma appartiene al Varna, la classe tradizionale, degli kshatriya quella cioè dei guerrieri. L’incarico di shankaracharya spetta di fatto a chi appartiene al Varna dei brahmani e le speranze di Varma sono vanificate. Il giovane non si arrende agli ostacoli posti dal sistema castale e decide di diventare un’autorità nell’ambito della tecnica meditativa appresa nel contesto del suo discepolato. Alla morte del maestro nel 1953, Varma viaggia per l’Uttarakhand, approfondendo la propria esperienza meditativa fino al 1955, anno in cui decide di lasciare lo stato nord indiano per iniziare ad insegnare le proprie conoscenze alle altre genti dell’India.
Primi tentativi in terra natia
È l’ottobre del 1955 quando il futuro padre della Meditazione Trascendentale fa la sua comparsa nella veste pubblica di nuovo maestro della sapienza tradizionale al fine di portare all’India le antiche conoscenze dell’insegnamento da lui apprese, in parte adattate e provenienti dall’antico lignaggio inaugurato da Adi Shankara, maestro dell’Advaita Vedanta, il Vedanta non dualista, vissuto nell’VIII secolo e annoverato tra i massimi sapienti del pensiero spirituale del subcontinente. I primi discepoli di cui si circonda Varma parlano del “sopraggiungere dell’alba di una nuova era gioiosa”.1 Se le aspettative sono grandi, l’iniziale avventura indiana del giovane maestro è tutt’altro che positiva. E questo per una questione piuttosto evidente agli studiosi dei nuovi movimenti religiosi: l’offerta formativa del futuro Maharishi non porta alcunché di innovativo in un paese dove la figura di Adi Shankara e le tecniche di meditazione proprie dell’Advaita Vedanta, nonostante le semplificazioni poste da Varma, non costituiscono elemento di considerevole novità e quindi non ottengono una particolare attenzione.
L’Advaita Vedanta, alle radici della Meditazione Trascendentale
Annoverato tra i sei Darshana o visioni del pensiero hindū, il Vedanta indaga la dimensione riguardante l’identità tra atman individuale e Brahman universale. Numerose sono le scuole Vedanta che propongono con argomenti sostenuti da ferrea logica variazioni su detta questione. Non è questo lo spazio per approfondire tali dispute, valga solamente sapere che il pensiero Vedanta inizia ad organizzarsi attorno al III secolo con l’opera Brahma Sutra composta dal saggio Badarayana. Tale Darshana si svincola dalla ritualità vedica per abbracciare in modo filosoficamente argomentato le più recenti Upanishad. Maestro del Vedanta non dualista o Advaita Vedanta, al quale si ispira Maharishi Mahesh Yogi, è il già citato Adi Shankara. Costui, nell’VIII secolo, inaugura la corrente che mira al riconoscimento dell’illusorietà del sensibile per giungere al superamento di maya, la manifestazione, che ostacola la realizzazione dell’unicità del reale, il Brahman che il liberato in vita, il jivanmukta, arriva a cogliere seguendo il cammino della conoscenza o Jnana Marga, che assieme a Karma e a Bhakti rappresenta uno dei triplici sentieri verso la liberazione già indicati da Krishna ad Arjuna nella Bhagavad Gita. Ora, volendo approfondire la questione del liberato in vita nella riflessione dell’Advaita si possono individuare differenti interpretazioni. Due tra le quali sono in questa sede sinteticamente presentate al fine di comprendere i fondamenti del messaggio della Meditazione Trascendentale. La prima concezione del jivanmukta è quella dell’individuo che ha raggiunto la conoscenza del Brahman o brahmajnana comprendendo che l’incarnazione o sashariratva è frutto dell’ignoranza. La consapevolezza di tutto ciò fa sì che il conoscitore della verità non tiene più in considerazione l’esistenza del proprio corpo sebbene esso continui ad esistere. Un’altra interpretazione, forse ancor più vicina a quella che appare nell’insegnamento di Maharishi, sostiene che il jivanmukta mantiene la propria forma fisica dopo aver raggiunto la liberazione per una sorta di compassione verso l’umanità. Nella veste di maestro in carne ed ossa l’insegnamento del jivanmukta diventa di fatto più efficace, se confrontato con l’ispirazione che può giungere da entità sovrumane o apaurusya, permettendo una sua più facile trasmissione ai posteri.2 In questa prospettiva, Maharishi sarebbe un liberato in vita che ha mantenuto le sue fattezze terrene per perseguire il nobile scopo di elevare spiritualmente i propri simili.
In Occidente, passando per Rishikesh
Lungo un lignaggio forse ininterrotto che parte da Adi Shankara, Maharishi Mahesh Yogi, per nulla scoraggiato dal ridotto interesse suscitato inizialmente in patria, decide di portare il suo insegnamento fuori dall’India. Il maestro parte nel 1957 per arrivare ad Hong Kong, Singapore e Hawaii dove diffonde una tecnica meditativa centrata sull’utilizzo di un mantra personale e quindi segreto chiamando inizialmente la propria tecnica Transcendental Deep Meditation, Meditazione Profonda Trascendentale, che in termini yogici va intesa come una forma di yoga contemplativo, e quindi non posturale, noto come mantrayoga. Così a proposito di questa tipologia di yoga il testo Sarvanga yoga pradipika, un commentario sullo yoga attribuito al saggio Sundardas e composto nel XVII secolo:
“Questi sono i benefici del mantra Ram. Un metodo semplice e sempre efficace. Colui che cerca il mantra Ram, dopo averlo sentito per la prima volta da un guru, deve praticarlo pronunciandolo con la sua lingua. E quindi, deve serbarlo nel cuore e ripetere il mantra senza usare la lingua. Notte e giorno si concentra su di esso, e la meditazione non si interrompe neppure per un istante. A questo punto la sillaba ram si manifesta in un flusso spontaneo ininterrotto. Il corpo e la mente vengono dimenticati, e il suono Ram è in ogni poro della pelle. Come sale che si mescola all’acqua, così la mente si fonde con quel suono. Il mantra Ram opera velocemente su di te in questo modo. Colui che cerca Ram praticando il mantrayoga secondo questa modalità, per grazia di un buon guru, trova la pace mentale.”3
La similitudine del sale che si mescola all’acqua riferita al processo mentale di mescolanza con il suono sacro rende efficace l’idea di quello che dovrebbe essere il processo soteriologico della ripetizione del suono sacro. Corpo e mente vengono scordati proprio come accade nell’esperienza del jivanmukta dell’Advaita. E nulla di tutto questo è realizzabile senza la mediazione dell’iniziazione di un guru, di un maestro qualificato che dell’esperienza in questione è un profondo conoscitore. Ecco allora che la figura del maestro risulta imprescindibile per praticare in modo appropriato ed efficace.
È il gennaio del 1959 quando Maharishi arriva a San Francisco e da lì a poco si sposta a Los Angeles dove nasce il brand TM. Agli inizi dell’esperienza nella West Coast il maestro non ottiene un particolare interesse di pubblico tant’è vero che almeno fino alla prima metà degli anni '60 i praticanti sono all’incirca due centinaia. Il maestro torna allora momentaneamente in India dove fonda nel 1961 a Rishikesh il suo primo centro per la formazione di insegnanti di TM. Questa volta l’esperienza si rivela positiva ed il centro diventa uno dei poli d’attrazione più importanti tra quelli creati nella carriera di Maharishi. A detta degli aderenti, il maestro forma, nell’arco dei suoi cinquant’anni di attività, circa 40mila insegnanti. 4 Dopo la creazione del centro di Rishikesh il successo planetario del fondatore della Meditazione Trascendentale si sta avvicinando.
Grazie all’intuizione imprenditoriale di alcuni tra i primi collaboratori del maestro, viene posta una particolare attenzione al mondo degli studenti universitari, in particolare a quelli delle californiane UCLA e Stanford che diventano presto catalizzatori della gioventù ribelle della West Coast in cerca di esperienze che possano superare il modello borghese e conservatore USA. È il 1965 quando il maestro fonda la Students’ International Meditation Society (SIMS). Dall’università al mondo dello spettacolo il passo è breve. In poco tempo il maestro indiano ottiene l’attenzione di molti VIP del tempo. Nulla di meglio che degli artisti adorati dai giovani per garantire una solida fama e successo in tutto l’Occidente.
I Beatles a Rishikesh
È l’estate del '67 quando il gruppo inglese dei Beatles ha occasione di partecipare ad un seminario tenuto da Maharishi all’Hotel Hilton, a Park Lane, di Londra. L’evento ha un effetto apparentemente sconvolgente nella vita dei quattro musicisti che dichiarano sul momento di rinunciare al consumo di sostanze psicotrope per dedicarsi alla ricerca spirituale. Nel febbraio dell’anno successivo la band parte alla volta di Rishikesh per approfondire assieme al maestro la Meditazione Trascendentale. Nello stesso ritiro si trovano altre celebrità quali Donovan, Mike Love dei Beach Boys e l’attrice Mia Farrow. Uno alla volta i quattro di Liverpool abbandonano però l’ashram per ragioni assai controverse e ancora non del tutto chiarite. Si sa che il batterista Ringo Starr abbia molto semplicemente vissuto come spiacevole la permanenza a Rishikesh per banali questioni quali il cambiamento della dieta e la presenza di fastidiosi insetti. Paul McCartney dopo alcuni giorni trova la routine della sveglia – colazione – meditazione – lezione del maestro piuttosto noiosa. Differente invece la reazione di John Lennon e George Harrison che nelle prime settimane passate a Rishikesh trovano, a loro dire, uno stato di pace che permette al primo di comporre un centinaio di canzoni arrivando a passare fino a cinque giorni consecutivi praticando meditazione. L’idillio di Harrison e particolarmente quello di Lennon si conclude a causa del fatto che una notte Maharishi sarebbe stato visto impegnato in licenziose condotte con una sua allieva. Il fatto non è mai del tutto appurato ma è sufficiente la diceria per fare decidere anche agli ultimi Beatles rimasti di andarsene. Il rapporto con il maestro verrà in qualche modo riabilitato dalla band, Harrison e McCartney in particolare, negli anni '90, porgono delle pubbliche scuse al maestro affermando di essere stati condizionati da dicerie mai confermate.5 Ad ulteriore supporto del ripensamento da parte dei membri rimasti della band nel 2009 Paul McCartney, Ringo Starr assieme a Donovan ed altri artisti organizzano un concerto per raccogliere fondi a favore della David Lynch Foundation for Consciousness-Based Education and World Peace, l’associazione fondata nel 2005 a Fairfield nell’Iowa, dallo stesso regista statunitense e nata al fine di promuovere la diffusione della Meditazione Trascendentale nel mondo a partire dai contesti scolastici.
Le affermazioni scientifico - spirituali
Non meno importante per la comprensione del successo della Meditazione Trascendentale è il fatto che il suo fondatore garantisce un successo personale al praticante il quale viene reso edotto da subito che la TM non richiede mutamenti significativi nel proprio stile di vita e soprattutto può essere vantaggiosamente applicata da chiunque indipendentemente dalla cultura di provenienza e dal credo religioso d’appartenenza : una ricetta che ben si adatta al fenomeno noto tra i sociologi della religione come “spiritual but not religious”. Insistendo sul principio dell’Advaita secondo il quale il vero sé è occultato dalla falsa convinzione che mente e corpo costituiscano l’autentica natura dell’individuo, il messaggio di Maharishi innesca l’entusiasmo dei cercatori spirituali che sono chiamati a due semplici sessioni di venti minuti al giorno di ripetizione del mantra personale per giungere alla Coscienza Cosmica. La dimensione dove ogni problema di natura personale svanisce e dove l’autentico potenziale umano può finalmente essere espresso. Il successo personale di cui parla Maharishi è direttamente correlato alla conoscenza del Sé più profondo, l’unica dimensione dove la mente cessa di vagare alla ricerca di stimoli gratificanti e del senso della vita, la dimensione ultima e definitiva, pienamente appagante per il singolo e positivamente contagiosa per il prossimo.
Per rendere maggiormente appetibile la nuova proposta Maharishi Mahesh Yogi arriva ad affermare che il metodo da lui insegnato possiede delle basi scientifiche per cui, se venisse raggiunto il considerevole numero del 10% di praticanti tra la popolazione mondiale, sarebbe possibile arrivare alla pace ed alla felicità collettiva. L’affermazione si fonda su di un altro controverso fenomeno che nel 1974 viene battezzato Effetto Maharishi.6 In breve, secondo tale effetto, nelle zone abitate dove si trova almeno l’1% di meditatori TM crimini, stress e disagio sociale tenderebbero a diminuire parallelamente ad un miglioramento del proprio benessere globale, delle proprie capacità di apprendimento, delle proprie abilità verbali e a molti altri guadagni personali. Il successo del maestro indiano lo porta a fondare nel 1971 la Maharishi University of Management, oggi Maharishi International University, a Goleta in California, poi spostata, tre anni dopo, nella già citata Fairfield. L’istituzione nasce per favorire lo sviluppo personale, quello collettivo e le proprie aspirazioni economiche in armonia con la natura. L’organizzazione dello spazio dell’università, da un punto di vista architettonico, si basa sui principi, voluti dal guru, di Vāstu Vidya, la scienza architettonica di origine vedica. Pochi anni più tardi, nel 1975 viene fondato a Seelisberg in Svizzera il M.E.R.U. acronimo che sta ad indicare il Maharishi European Research University con l’obiettivo di approfondire le conoscenze nell’ambito della coscienza in stato meditativo e dei suoi effetti in relazione alla fisiologia umana ed al benessere sociale.
Nell’ambito delle ricerche condotte da Maharishi e dal suo gruppo di scienziati viene incrementato il potenziale dell’Effetto Maharishi attraverso l’utilizzo di una nuova tecnica meditativa battezzata TM-Siddhi, altrimenti nota come Volo Yoga, una pratica che si può vedere oggi sulla rete dove si assiste ad una sorta di balzi di individui immersi nell’esercizio meditativo. È il 1978 infatti quando Maharishi ed il suo team scoprono l’Effetto Maharishi Esteso, secondo il quale, oltre ai già espressi vantaggi individuali e collettivi, se la radice quadrata dell’1% della popolazione di un determinato territorio, città o nazione si impegna nel Volo Yoga si assiste ad un miglioramento sul piano globale dell’area geografica interessata.7 Se l’Effetto Maharishi contiene il livello di stress e di disagio sociale la sua variante più recente agisce in modo preventivo sui medesimi problemi con una richiesta numericamente minore di praticanti.
Le verità dell’antico corpus vedico, a detta del maestro e dei suoi più stretti collaboratori, giunge ad essere pienamente confermata per mezzo dei criteri propri della scienza occidentale. In particolare sono utilizzati, in modo piuttosto deciso, concetti della fisica quantistica. È interessante notare a questo riguardo che tra gli ex allievi più famosi di Maharishi si trova uno dei più noti promotori del cosiddetto misticismo quantico8, il medico americano di origine indiana Deepak Chopra che nel 1989 scrive il bestseller Quantum Healing. Nel testo l’autore espone degli argomenti a favore del benessere mente-corpo utilizzando interpretazioni di idee riferite per l’appunto alla meccanica quantistica.9
In modo meno forzato, l’idea di una possibile collaborazione tra la scienza occidentale e i saperi della tradizione dell’India non è un’assoluta novità nel panorama dell’incontro tra le due realtà culturali. Già in precedenza, due illustri maestri di cultura hindū come Aurobindo e Radhakrishnan intuirono le potenzialità presenti in un simile dialogo. Ciononostante, se si escludono le sempre più frequenti e accreditate ricerche sull’efficacia della meditazione e dello yoga posturale in termini di benessere globale della persona non esistono ad oggi prove rigorosamente scientifiche che confermino le affermazioni del fondatore della Meditazione Trascendentale.
Ad ogni modo, a partire dalla fine degli anni '70 fino ad oggi numerose scuole e università adottano la Meditazione Trascendentale per migliorare la qualità della vita ed il rendimento degli studenti. Il metodo è utilizzato in differenti parti del mondo. Nel Regno unito esiste la Scuola primaria e secondaria Maharishi di Skelmersdale nel Lancashire che riceve finanziamenti dal Ministero dell’Istruzione ed è basata naturalmente sugli insegnamenti della TM. Gli aderenti al movimento dovrebbero essere all’incirca 6 milioni, molti dei quali formatisi tramite la David Lynch Foundation.10
NOTE:
1 D. Sawer, Cynthia Humes (2023), The Transcendental Meditation Movement, Elements in New Religious Movements, UK, Cambridge University Press, 2023, p.5
2 A. O. Fort (1998), Jivanmukti in Transformation, Embodied Liberation in Advaita and Neo – Vedanta, Albany, State University of New York Press, 1998, pp. 8 - 9
3 Sundardas, Sarvayogapradipika 2.23 – 27, da Le radici dello yoga, a cura di J. Mallison e M. Singleton (2017), Roma, Ubaldini Editore, 2019, pp.285 - 286
4 R. Balotelli in L’Oriente che non tramonta, a cura di E. Fizzotti e F. Squarcini (1999), Roma, LAS, 1999, p.195
5 D. Chiu (2021), The Beatles in India: 16 Things You Didn’t Know, rollingstone .com
6 R. Balotelli, Op. cit., p.199
7 R. Balotelli, Op. cit., p. 201
8 Il misticismo quantico è una pseudoscienza nata agli albori della ricerca sulla fisica quantistica nei primi anni del XX secolo e divenuto particolarmente popolare in età New Age negli anni '70. In estrema sintesi, esso sostiene che la meccanica quantistica fornisca una lettura non-dualistica della realtà che può essere controllata dalla coscienza individuale.
9 D. Chopra (1989), Quantum Healing: Exploring the Frontiers of Mind Body Medicine, New York, Bantam Books, Penguin Random House, 2015
10 D. Sawer, Cynthia Humes (2023), Op. cit., p.4

di Enrico Casagrande
L’Indian National Congress e l’élite culturale indiana a fine ‘800
L’”Indian National Congress” è il movimento politico che assume storicamente un ruolo determinante nell’ottenimento dell’indipendenza dell’India dal giogo dell’impero britannico. Nato nel 1885, il Congresso trova tra i suoi primi rappresentati intellettuali, avvocati e colti proprietari terrieri provenienti soprattutto da Bombay e da Calcutta. Quest’ultima, capitale indiana al tempo del Raj, sta vivendo il fecondo periodo del “Rinascimento Bengalese” nel quale l’élite culturale locale viene formata in istituzioni educative sia britanniche che indiane d’impronta illuministica. Tra essi alcuni tra i più noti riformatori dell’induismo come Raj Ram Mohan Roy e la famiglia Tagore alle cui iniziative si ispireranno alcuni tra i padri della moderna spiritualità indiana che fungerà da fondamento allo yoga transculturale moderno, Vivekananda e Aurobindo per primi. La stessa élite collabora con i colonizzatori, almeno in un primo periodo, nella gestione della colonia. Un profondo processo di acculturazione era stato lungamente imposto. Le categorie del pensiero istituzionale europeo avevano fatto breccia nella vita dell’indiano più colto allontanandolo in parte dalla tradizione. Al contempo ciò lo attrezzava per poter entrare nell’agone giuridico del common low1 disponendo dei necessari strumenti.2
I timori dell’Impero
L’episodio della rivolta dei sepoy risalente al 1857, che porta alla formale sostituzione del Parlamento imperiale alla Compagnia, evidenzia la disaffezione del mondo indiano dai britannici. Questi ultimi, avvertono un sempre maggior senso di fragilità del loro potere temendo il ripetersi della rivolta con esiti fatali per la stessa sopravvivenza dell’impero. I dominatori, mossi da detti timori più che da una visione politica matura, dopo quasi trecento anni di presenza in terra d’India, si profondono in un susseguirsi di provvedimenti legislativi marcatamente miopi e autoritari. Nuove ed insostenibili tasse sono fatte applicare, tra esse quella del sale, quella sullo scavo di nuovi pozzi e quella delle affittanze dei terreni coltivabili. Negli anni ’60 e ’70 del XIX secolo detti inasprimenti fiscali portano i locali a drammatiche condizioni di indigenza alle quali si associano una crisi alimentare che conduce ad epidemie di colera e di vaiolo. Di fronte alla strage degli indigenti – in Orissa muore il 25% della popolazione – i governatori britannici che vedono calare notevolmente i loro introiti decidono di alzare fino al 300% il prezzo del grano. Il malcontento indiano è inevitabilmente giunto ad un livello senza precedenti. Ciononostante, il Parlamento inglese, sostituitosi da poco alla Compagnia non dimostra di voler mettere in atto misure di sostegno per le genti del Raj, le cose proseguono nella direzione qui vista. Il malcontento piuttosto che essere ascoltato viene inasprito. È del 1878 il “Vernacular Press Act”, promosso sotto il governo del viceré Lord Lytton, che proibisce la scrittura e la stampa nelle lingue del subcontinente. Il tema della stampa nelle lingue vernacolari era invero, fin da dopo il mutiny del 1857, motivo di preoccupazione per i britannici che vedevano nella carta stampata indiana una seria possibilità di diffusione di idee sediziose (B. Belmekki, The Formation of the Indian National Congress: a British manouvre? Accademia.edu, p.33).
Il cammino verso la fondazione dell’Indian National Congress
I timori del Raj di vedersi sottratto il controllo del “Gioiello della Corona”, appellativo dell’India in voga al tempo, è più che fondato. Le misure adottate a favore del benessere dei suoi sudditi sono minime e inefficienti al netto di una legislazione interessata esclusivamente agli introiti inglesi. Un episodio di tutto rilievo in questa complessa configurazione socio – economica è quello dell’”Ilbert Bill” del 1883. Sir Courtney Ilbert (1841 – 1924), consulente legale del viceré Lord Ripon (1827 – 1909), elabora nel 1883 una proposta di legge volta a permettere ai giudici di origine indiana di processare gli europei per crimini di qualsivoglia natura commessi nel subcontinente. La comunità europea risponde alla proposta con una tale aggressività che l’”Ilbert Bill” non diverrà mai legge. Il pregiudizio razziale verso le genti indiane pare talmente radicato che i sudditi di Sua Maestà non sono in grado di fare altro che immaginare possibile un permanente controllo dell’India attraverso l’uso della forza. Gli indiani informati della fallita proposta di legge provano una timida reazione che viene immediatamente bloccata per il motivo che, a detta degli europei ivi residenti, la questione riguarda esclusivamente il rapporto tra questi ultimi ed il viceré. Per quanto possa apparire surreale una simile gestione dell’intero affare “Ilbert”, è evidente come al di là di un’eventuale risposta di carattere violento, come quella del 1857, la situazione si trova in uno stallo politico e sociale che scaturisce anche da parte indiana. La totale mancanza di un’organizzazione politica composta da indiani e capillarmente diffusa per tutto il paese che possa curare legittimamente gli interessi della sua popolazione è ormai più che evidente. È in questo clima che nel 1885 nasce l’”Indian National Congress”, il movimento politico che sappiamo condurrà quasi sessant’anni dopo l’India all’indipendenza dal Raj.
La mancanza di una piattaforma politica in grado di dare voce alle più autentiche istanze del popolo indiano è una questione che è già stata avvertita da alcuni leader di gruppi politici che si organizzano nel decennio precedente la nascita del Congress. Tra questi, l”Indian League” nata a Calcutta nel 1875 per opera del giornalista Sisir Kumar Ghosh (1840–1911) con lo scopo di infondere tra le genti un senso di unità nazionale. Con analoghi propositi va ricordata l’”Indian Association” fondata nel 1876 da Surendranath Banerjee (1848 – 1925) un liberale originario di Calcutta noto come “L’insegnante della Nazione” per il lavoro profuso, anche in questo caso, nel promuovere quella consapevolezza nazionale non ancora sufficientemente maturata tra le genti dell’India. La novità storica portata da tali organizzazioni è quella di operare mantenendosi al di sopra di limitati interessi regionali per guardare il subcontinente nel suo vasto insieme. Va detto che tra le fila di tali gruppi si trova un’assai limitata partecipazione di musulmani. L’atteggiamento di questi ultimi, che alla fine contribuiranno ampiamente alla causa della libertà indiana, è generalmente più prudente verso gli inglesi. Ciò può essere spiegato col fatto che il territorio indiano è a larga maggioranza hindū e l’autonomia se non addirittura la piena indipendenza dagli europei viene percepita dal mondo musulmano come uno strapotere della cultura originaria del subcontinente. Si tratta quindi, per questi ultimi di un’alternativa non troppo suggestiva. Questa è la ragione che motiva la nascita nel 1906, cioè l’anno successivo alla prima partizione del Bengala, della “All-India Muslim League” che chiede, sin dai suoi albori, la formazione di uno stato musulmano separato dall’India hindū: nascerà il Pakistan, con il placet britannico, nel 1947.
Quando nel 1895 nasce l’”Indian National Congress” – da ora INC – queste organizzazioni trovano una piattaforma politica comune in un movimento che assorbe le istanze delle medesime e si propone sin da subito di divenire la prima realtà politica nazionalista indiana che può includere le molteplici istanze del subcontinente indipendentemente dai regionalismi o dal credo religioso. È importante precisare che all’inizio, il mondo musulmano mantiene quella diffidenza verso la nuova formazione politica per le ragioni già riferite. Cionondimeno, l’avvocato musulmano, originario di Bombay, Badruddin Taybji (1844 –1906) sarà, sin dagli esordi del Congresso, uno dei suoi membri maggiormente attivi, divenendone il terzo presidente tra il 1887 e il 1888. Nel tempo, tra le fila del neonato movimento, il numero di leader di fede musulmana andranno aumentando contribuendo fattivamente al pieno raggiungimento della più tarda indipendenza del subcontinente.
La “Safety Valve Theory”
Due ipotesi si presentano presto all’attenzione degli storici in merito alla nascita dell’”INC”: la prima vede nella nascita del Congresso la ragionata decisione del popolo indiano pienamente consapevole della necessità di provvedere in prima persona ad assumere una piena autonomia politica per potersi governare senza le insostenibili ingerenze britanniche; la seconda è nota invece come “Safety Valve Theory” ovvero la teoria della “valvola di sicurezza”, la quale sostiene che il Congresso sia un’entità politica nata a partire da uno stratagemma britannico volto a cogliere, attraverso un forum pubblico, i primi segnali che potevano precedere le esplosioni di moti di ribellione. Quest’ultima verrà presto abbandonata.
La “Safety Valve Theory” viene presentata nel 1916 dallo scrittore e combattente per la libertà dell’India Lala Lajpat Rai (1865 – 1928) nel suo articolo ”Young India” con la finalità di colpire l’ala più moderata dell'INC. La teoria si basa sulla biografia di Allan Octavian Hume (1829 – 1912), ex ufficiale del Civil Service imperiale e promotore dell’INC, scritta tre anni prima da William Wedderburn (1838 – 1918). Viene sostenuto che Hume avesse trovato sette volumi apparentemente prodotti dalla polizia imperiale, dove emergeva il fatto che il popolo indiano si stesse adoperando per una violenta reazione al Raj data dall’insostenibilità delle condizioni di vita imposte da questo. Tale scoperta, corroborata dalle informazioni fornite allo stesso Hume da misteriosi individui dotati di poteri spirituali, avrebbe condotto l’uomo ad entrare in contatto con il viceré Duffering architettando la promozione del Congress come valvola di sicurezza per il contenimento di eventi a suo dire superiori a quelli del 1857 ed equiparabili a quelli del 1776 – 1783 in America del Nord (Op. Cit. p.36).
Le origini del nazionalismo indiano
Esclusa l’ipotesi pseudostorica, il primo incontro ufficiale dell’”INC”, viene quindi organizzato dall’ex ufficiale del Civil Service Hume. Egli sin dal 1883 aveva inviato un comunicato aperto ai laureati presso l’Università di Calcutta3. Nel comunicato, il suo autore invita a riflettere sulla possibilità di fondare un’entità politica che possa occuparsi delle problematiche del popolo indiano a partire da una diretta partecipazione. Hume a fine dicembre del 1885 convoca a Bombay la prima sessione ufficiale del Congresso con la partecipazione di 72 indiani provenienti da ogni parte del paese. Primo presidente del neonato movimento diviene Womesh Chunder Bonnerjee (1844 – 1906), un avvocato di Calcutta che coprirà la nuova carica tra il 1885 e il 1886.
Indipendentemente dalle teorie cospirazioniste, è indiscutibile il contributo di Hume nella fondazione del Congresso. Può essere storicamente accettabile che la sua iniziativa non sia nata esclusivamente per spirito umanitario ma anche per una visione realisticamente preoccupata dello stato delle cose. Resta altrettanto evidente però la forza propulsiva del popolo aggiogato pronto ormai ad un sensibile cambio di passo politico.
Dalla prima riunione ogni anno i membri del Congresso si riunirono puntualmente per discutere lo stato delle cose e promuovere le iniziative trattate. Le due correnti principali che compongono il nuovo movimento politico sono i nazionalisti rivoluzionari e quelli liberali. I primi propendono per una totale autonomia della nazione indiana che, nata da tempo immemore, non può che proseguire libera sui solchi della tradizione. I nazionalisti liberali sostengono invece la possibilità di consolidare la nazione organicamente al dominio britannico (H. Kulke, D. Rothermund, Storia dell’India, Odoya edizione, Perugia 2019, p.342). Il nazionalismo, prodotto della modernità europea era arrivato in India così come erano arrivate la filosofia degli empiristi e dei razionalisti, così come era arrivata la tecnica. Nulla sarebbe più stato come prima.
NOTE
1 Il common low viene esteso a tutta la colonia solamente verso la metà del XIX secolo. In precedenza la East Indian Company applicava leggi territoriali antecedenti la sua presenza nelle colonie conquistate mentre faceva applicare il common low nelle colonie acquisite tramite insediamento. Cfr. G. Abbate, Un dispotismo illuminato e paterno, riforme e codificazione nell’India Britannica, Giuffrè Editore, Firenze 2015, p.44
2 Il processo di acculturazione imposto da una cultura sull’altra presenta una fenomenologia articolata che nasconde una subdola forma di violenza. Si tratta della violenza simbolica di cui parla fin dagli anni 70 del secolo scorso il sociologo francese P. Bourdieu (1930 – 2002). Nello specifico dell’imperialismo culturale, la violenza simbolica si esplica attraverso l’universalizzazione di esperienze storiche singole. In questo caso sono resi universali i valori particolari della cultura britannica.
3 Sul fermento culturale vissuto al tempo in Bengala vedasi E. Casagrande e K. Digrazia, “Riformismo Hindū, Colonialismo, Tradizione e Protagonisti”, Porto Seguro editore, maggio 2022
L’”Indian National Congress” è il movimento politico che assume storicamente un ruolo determinante nell’ottenimento dell’indipendenza dell’India dal giogo dell’impero britannico.
di Kenan Digrazia
INTRODUZIONE
Vogliamo inaugurare una serie di piccoli articoli volti a stimolare una riflessione più profonda nei praticanti dello Yoga che ci seguono su questa rivista. Si tratta di gettare nuova luce su alcuni passaggi spesso considerati a torto come “oscuri” all'interno degli Yoga Sūtra di Patañjali, il testo a fondamento del Darśana dello Yoga, una cui lettura seguita da attenta meditazione si rende indispensabile per chiunque voglia progredire in modo completo nel cammino del ricongiungimento.
Andremo a rintracciare le direttrici esegetiche dei termini sanscriti nei Veda, che stanno alla base di tutta la sapienza e la spiritualità indica, come è ormai noto. Gli Yoga Sūtra, tuttavia, non fanno parte della tradizione śrauta, ovvero della “rivelazione udita”, cioè non sono dei testi vedici e, anzi, stando a quanto affermano molti studiosi come Mircea Eliade, il corpus dello Yoga non si origina dalla tradizione vedica, ma è stato integrato, assimilato e riformato durante il periodo in cui i caratteri dell'induismo moderno andavano delineandosi in modo via via più marcato, cioè dopo il 300-200 a. C., pure epoca di stesura degli Yoga Sūtra. Qualunque sia la sua origine, in ogni caso, quel che è certo è che «grazie a Patañjali lo Yoga, da tradizione "mistica", si è trasformato in "sistema filosofico"»1.
Se è vero che lo Yoga integra in sé elementi eterogenei, è pur vero che Patañjali scrive in sanscrito classico, lingua indoeuropea derivata direttamente dal vedico e ad esso molto vicina; dando nuova linfa e organizzazione spirituale a una via di realizzazione che sarà poi considerata come tradizionale hindū, egli dunque non può che integrare una terminologia ed una simbologia facilmente comprensibili all'epoca, cioè non può non impiegare tutte quelle metafore e quel lessico religioso che discendono dai Veda. Si pensi oggi a quante espressioni biblico-cristiane (“anno sabbatico”, “capro espiatorio”, ecc...) siano d'uso nella lingua corrente; è chiaro che se col passare del tempo, uno desiderasse comprenderne nuovamente il senso, dovrebbe tornare al “contesto di nascita”, alle ragioni originarie e alle funzioni svolte nel testo sacro da tali espressioni. Ebbene, ci proponiamo nel nostro piccolo di compiere un'operazione analoga: quando un sūtra risulta poco chiaro, nei limiti del possibile, proveremo a tracciare la “genealogia” vedica dei suoi vocaboli, nonché a studiare come il contesto degli inni ove tali vocaboli sono presenti ci fornisca maggiori informazioni sulla simbologia, sull'interpretazione e sull'applicazione di tale sūtra.
Siamo consci che i sūtra, per loro natura estremamente sintetici, non si prestano ad interpretazioni univoche. Per usare la metafora del grande Jaggi Vasudev, riportata da Sebastiani in Yoga Sutra – antica spiritualità e moderna pratica, un sūtra assomiglia ad una formula: come E = mc2 nasconde un intero impianto di concezioni teoriche e sperimentazioni, un vero e proprio paradigma scientifico che può essere compreso e spiegato a vari livelli, così i sūtra riassumono una profonda visione del mondo che non può essere ridotta alla semplice conoscenza proposizionale, ma che necessita di un'applicazione fattuale e personale, diversa per ciascuno, eppure armonicamente riferita ai medesimi concetti o a dottrine tra loro equivalenti. Tenendo a mente tale importante dettaglio, che secondo chi scrive è il tratto della Tradizione indica più affascinante e conforme alla natura epistemica dell'Universo, cominciamo senza indugio il nostro viaggio, le cui tappe ci porteranno a disseppellire lungo la strada antichi forzieri di Sapienza vedica.
PARTE I: LA FORZA DELL'ELEFANTE
–
Yoga Sūtra III, 24: बलेषु हस्तिबलादीनि || incentrando la pratica sulla forza si diviene forti come un elefante. (2)
La traduzione tradizionale del sūtra recita così: concentrandosi sulla forza dell'elefante la si può assimilare. Il testo è costituito solo da tre parole: baleṣu = sulle forze/potenze/vigori; hasti = l'elefante; balādīni = della forza. Naturalmente, senza comprendere con l'ausilio della simbologia vedica le varie accezioni sovrapposte di hasti e bala in sanscrito, ci si può formare l'idea di uno Yoga capace di trasformarci in supereroi degni di un film della Marvel. La cosa ci fa sorridere. In realtà, analizzando bene la situazione scopriremo che le due traduzioni non sono proprio in antitesi: se opportunamente comprese, sottintendono la medesima concezione, originariamente tracciabile nei Veda.
Innanzitutto, cominciamo dai termini. Bala: indica la Forza olistica, nel senso di Energia divina che pervade internamente l'essere umano, donandogli una vita più attiva, un influsso maggiormente positivo per sé e per gli altri, coraggio, destrezza e chiarezza mentale che lo conducono all'immortalità. Agni, l'Immortale nei mortali, il Fuoco divino acceso nel cuore, è spesso chiamato nel Ṛg Veda balasya putra, Figlio della Forza (anche sahasas putra), cioè nato dalla Forza immanente divina che è la Vita cui tutti apparteniamo. Hasti: è il generico termine per indicare l'elefante, subentrato in epoca più tarda al Ṛg Veda. Non è il solo vocabolo per l'elefante. Ci torneremo tra un attimo.
C'è una preghiera nell'Atharva Veda che ci permette di chiarire le sfumature spirituali da attribuire all'Elefante: si trova nel terzo libro, inno 22. Essa mostra l'aspirazione umana a raggiungere l'apice della creazione, che è la meta del percorso dello Yajña, cioè del Sacrificio come pratica sia rituale che di viaggio spirituale interiore, aspetto sul quale le Upaniṣad si concentrano molto. Il Sacrificio è il ripristino della sacralità della Realtà, è “realizzare” noi stessi l'immagine perfetta del Tutto che è già a misura d'uomo (Puruṣa). Il Sacrificio è il pieno consumarsi del proprio ego per giungere al recupero della condizione primitiva di libertà e di immortalità che apparteneva all'uomo. Tutto ciò viene rappresentato dall'elefante, la più eminente di tutte le creature, latrice di regalità, emblema della realizzazione dei giusti desideri, e in ultima istanza, della conoscenza di Brahman nel mantra (la Parola-Logos-Vibrazione).
In RV X, 40, 4, rivolto ai poteri gemelli della Coscienza, gli Aśvin, leggiamo (traduzione di Kenan Digrazia):
«Simili a cacciatori che catturano due elefanti selvatici, consacrando noi stessi come offerta sacrificale, vi invochiamo alla sera e al mattino; infatti, voi concedete ricchi doni al momento propizio, come splendidi Eroi!».
La regalità, ovvero il perfetto dominio di se stessi, la forza fisica e morale, sono i doni di cui si parla, ottenuti grazie al perfetto armonizzarsi della coscienza interiore con quella divina (i due Aśvin), la sopra-mentale, direbbe Sri Aurobindo. Cominciano già a chiarirsi alcuni dettagli in relazione al libro sui “doni dello Yoga” nell'opera di Patanjali.
Enunciato in breve lo sfondo concettuale, passiamo a citare l'inno dell'Atharva Veda in questione (III, 22; traduzione di Kenan Digrazia), che ci aiuterà a comprendere il sūtra esaminato. Le metafore sono intuitive, il linguaggio poetico parla immediatamente alla mente. Ci limiteremo a riportare delle note esplicative per il lettore senza dimestichezza col simbolismo vedico, passando quindi alle conclusioni.
1. La gloria dell'Elefante si eleva a vasto
splendore, essendosi manifestata dalla
Sostanza infinita: per intero fu conferita
a me da tutti gli dèi, con Aditi concorde.
2. Mitra, Varuṇa, Indra e Rudra l'intelletto
hanno fissato su di lui! Essi sono gli dèi
che sostengono ogni cosa: mi ungano
e mi consacrino col lustro della Parola!
3. Con la Gloria per la quale l'Elefante
è venuto in essere, che dimora in un re,
nell'uomo e all'interno delle Acque,
grazie alla quale gli dèi in principio
addivennero alla deità, con tale Gloria
o Agni, rendi anche me glorioso e forte.
4. O onnisciente Agni, che i due Aśvin,
coronati di loto, mi diano la Tua vasta
Gloria, che sorge dal Sacrificio, quando
ci si offre a Te, simile allo splendore
del Sole o del possente Elefante!
5. Dalle quattro lontane direzioni, fin dove
l'occhio può dirigere il suo sguardo,
possa quella grande forza della Mente
giungere a me come gloria dell'Elefante.
6. L'elefante è ora divenuta la più eminente
delle bestie che si possono cavalcare:
mi ungo e mi cospargo della sua gioia
con lo splendore della Parola in lui!
Ecco la stanza 1 in sanscrito traslitterato: Hastivarcasaṃ prathatāṃ bṛhad yaśo adityā yat tanvaḥ saṃbabhūva | tat sarve sam adur mahyam etad viśve devā aditiḥ sajoṣāḥ ||
Varcas, “gloria”, “lustro”, indica pure lo splendore della Parola mantrica: deriva dalla radice ruc-, splendere, che è imparentata con ṛc, “strofa recitata”, da cui poi discende arca, che indica sia il “raggio splendido” che il “mantra”! Varcas appartiene all'elefante, qui indicato col generico Hasti. Quattro sono i vocaboli del vedico specifici per l'elefante (bhadra, mandra, mṛga e miśtra) come quattro sono i livelli della Parola (Ṛg Veda I, 164, 45). Il fatto che tale vasta (bṛhat, vastità divina interiorizzata nell'uomo) gloria si sia manifestata dall'illimitato bacino energetico divino in principio (Aditi) e che venga concessa con gioia e pari consentimento (sajoṣa) da tutte le potenze divine a chi prega, conferma che essa è l'intima conoscenza della Parola, del Brahman, la Forza in Sé.
Riguardo alla stanza 4, notiamo che l'espressione finale è molto simile a RV X, 184, 2d, in cui i due Aśvin, inghirlandati di loto, pongono il Germe vitale nel grembo materno perché avvenga il concepimento di nuova vita (sia in senso biologico che spirituale), proprio perché il fiore di loto è il simbolo del “Germe primevo delle Acque”, la manifestazione gloriosa del Creatore nell'Oceano in principio (cfr. la tradizione vaiṣṇava). Il celebre astronomo Varāhamihira riporta che puṣkara significa non solo loto, ma anche “punta di proboscide”, il che spiega un bel doppio senso nascosto nel testo, con riferimento proprio all'Elefante: dalla punta della sua proboscide emerge il vibrato barrito, come la Parola risuona sulla punta della lingua umana. Infine, notiamo che nel primo distico si afferma che la Gloria dell'uomo può giungere solo dall'umile abbandono nelle braccia divine, con spirito di servizio e sacrificio lungo la via dello Yajña, del Sacrificio, poi divenuta Yoga o Bhakti Yoga per alcuni, tra cui Patanjali.
Si dice ancora che la gloria dell'elefante sia forza della mente: il vocabolo indriya fu poi impiegato per gli organi di senso (Indra è l'intelletto divino). Infine, per quanto riguarda l'ultima strofa, precisiamo che nel linguaggio vedico, quando si dice che un qualcosa “è divenuto” significa affermarne il compiersi della manifestazione in tale forma, già “contenuta” al suo interno, ma adesso pienamente e funzionalmente maturata. Non si tratta né di evoluzione, né di venire in essere dal non-essere, cosa negata sul piano ontologico dalle Upaniṣad. Si tratta invece della piena identificazione della Potenza divina con la forma poetica che viene ispirata dalla Parola mantrica in quel momento, secondo la comprensione individuale.
Adesso è chiaro l'equivoco dietro la traduzione popolare del sūtra: essa, riferendosi ai concetti vedici summenzionati, vuole indicare che la potenza del progresso spirituale nello Yoga è equivalente a quella dello Yajña vedico, e che lo Yoga ci dona lustro e forza, perché in ogni cosa possiamo essere connessi alla Parola universale: solo così si avrà la gloria dell'elefante! Col passare dei secoli, però, subendo il concetto vedico di Sacrificio una degenerazione magico-ritualistica, i commentatori medievali, ormai ignari di cosa l'Elefante rappresentasse, si limitarono a scrivere sul sūtra in esame che è il solito principio emulativo, si assorbono le qualità dell'oggetto della meditazione, riferendosi a pratiche che hanno smarrito il senso cosmico e interiore della Parola mantrica nei Veda, limitandosi a riprodurne l'aspetto manipolativo. Ecco perché spesso noi moderni siamo in imbarazzo o scioccati nel leggere simili traduzioni, tanto da doversi rendere necessario un aggiornamento. Allora, l'ottima traduzione contemporanea di Sebastiani, ora compresa sotto la simbologia vedica, potrebbe suonare così, se spiegata: incentrando la pratica con spirito di sacrificio sulla forza divina si diviene ripieni della gloria della Parola cosmica, cioè al proprio interno si manifesta attivamente la Forza divina con i suoi doni coscienti.
Afferma Sebastiani alla fine del suo commento sul sūtra: «Praticare con costanza e dedizione regala sicuramente grande forza d'animo, è difficile proprio perché alcuni giorni non ne avremo voglia, saremo poco motivati, e proprio questa ripetizione ci farà capire il valore e il significato della costanza». E a questo punto aggiungerei, ci farà capire lo spirito del Sacrificio interiore, bruciando le voglie dell'ego per sostituirle con una mente in armonia alla Vibrazione cosmica, alla Parola che ci donerà forza e lustro.
Naturalmente, abbiamo potuto offrire solamente pochi spunti al lettore volenteroso, cui adesso spetta il piacevole onere e il ragionato onore di approfondire e di applicare. Al prossimo “episodio”!
(1) Mircea Eliade, Lo Yoga. Immortalità e libertà, a cura di Furio Jesi, traduzione di Giorgio Pagliaro, BUR, 2010; p. 23
(2) Traduzione di Marco Sebastiani, Yoga Sutra – antica spiritualità e moderna pratica, Porto Seguro Editore, 2020; p.
di Enrico Casagrande
Veicolo di saperi
La diffusione del lessico proprio dello yoga e più in generale dell’induismo oltre i confini indiani a partire dalla fine del XIX sec. individua correttamente in Vivekananda il suo protagonista principale. Tale assunto della ricerca storica è altrettanto correttamente integrato dal riconoscimento del significativo lavoro di ricerca, pubblicazioni, conferenze ed organizzazioni internazionali distribuite sia in Oriente che in Occidente operato dalla Società Teosofica, che oltre allo yoga e all’induismo fa conoscere al mondo, tra le molte altre scuole spirituali, soprattutto la dottrina buddhista.
Le origini
La Società Teosofica (la società della sapienza divina) viene fondata a New York nel 1875 per opera della medium russa Helena Petrovna Blavatsky (1831 – 1891) e dal colonnello statunitense Henry Steel Olcott (1832 – 1907). La Blavatsky sostiene di essere in contatto con i Mahatma, letteralmente le grandi anime, maestri ascesi che rivelano alla donna la comune natura delle religioni, delle scuole sapienziali antiche come pure del sapere scientifico che posseggono il potenziale per giungere alla conoscenza dell’unica Verità intesa come unicità del Reale. Non c’è religione più elevata della Verità: questo è il motto teosofico. Agli affiliati non viene chiesto di abbandonare il loro credo, tutto l’impegno sarà rivolto allo sviluppo del potenziale spirituale, abbracciando le rivelazioni teosofiche, diffondendone teoria e pratica.
La dottrina
I saperi della Società Teosofica trovano la loro sintesi nelle due opere più importanti della Blavatsky: “l’Iside svelata” del 1877 e “la Dottrina segreta” del 1888. Quest’ultima in particolare pone le tre fondamenta della dottrina teosofica:
• la Realtà, nella sua unicità, deve poter portare l’uomo a realizzarsi in essa senza alcuna distinzione etnica, culturale o di genere
• la Realtà conduce al sincretismo spirituale – scientifico a favore della fratellanza dell’umanità intera
• la Teosofia risveglierà le facoltà latenti degli individui attraverso pratiche rivelate agli iniziati e studio dei principi della natura
Secondo un modello che fa incontrare gnosi occidentale e pensiero indiano tradizionale l’uomo sarebbe composto da sette “corpi”. Al livello superiore si trova Atma, lo Spirito Universale cui segue Buddhi, il veicolo che rende particolare l’universalità di Atma. Dal secondo “strato” si giunge a Manas, l’intelletto individuale dopo il quale si giunge a Kama – Rupa ossia la vita animale. Linga Sharira è il “corpo” astrale che contiene la dimensione emozionale della persona. Penultimo è il Prana ovverosia l’essenza vitale che precede l’ultimo livello, quello di Stula Sharira, il corpo materiale (Theosophy basics, Blavatsky on the number seven, Montreal Theosophy Project, consultato in dicembre 2021). Essenziale la dottrina del karma in tale prospettiva dato che gli accumuli virtuosi come per altro quelli corrotti delle vite trascorse influenzano la futura rinascita dell’individuo comune come pure quella del teosofo. Il vantaggio dell’iniziato è quello di conoscere rivelazioni e tecniche di contemplazione in grado di favorire il proprio processo verso livelli sempre più “sottili” della Realtà ricevendo da essa sostegno in tal senso.
Articolata si presenta pure la cosmogonia teosofica dove torna il numero sette che appartiene ad ogni livello evolutivo o catena di ogni pianeta. Il processo è sempre quello di una precipitazione da una dimensione più tendente al dominio spirituale ad una collocata ad un dominio più orientato al livello fisico. La terra è giunta al suo quarto e più basso livello, da esso avverrà una risalita lungo tre livelli per completare il settetto terrestre.
Nella sua complessa dottrina d’impianto sincretista la medium russa intraprende un percorso dove individua nell’occultismo la Scienza per eccellenza che giustifica su “piani” preternaturali la scienza di fine ‘800. Queste le sue parole a tal proposito:
“…la scienza si sta avvicinando […] ai domini dell’occulto. È costretta, bon grè, mal grè, dalle sue proprie scoperte ad adattare la nostra fraseologia e i nostri simboli […] la scienza chimica è ora costretta ad accettare anche il nostro modo di spiegare l’evoluzione degli Dei e degli atomi così suggestivamente raffigurati nel Caduceo di Mercurio, il Dio della sapienza, e nel linguaggio allegorico dei saggi arcaici” (H. P. Blavatsky, La Dottrina Segreta, scienza antica e scienza moderna, posizione 1351, Cerchio della Luna ed., Verona 2018).
Il sincretismo genericamente proposto da numerose scuole sapienziali diviene con la Società Teosofica un tentativo di sintesi definitiva del sapere universale.
In India
La portata degli insegnamenti della Teosofia ha una vasta diffusione che in breve tempo si espande oltre gli Stati Uniti e l’Europa. È il febbraio del 1879 quando la sede centrale della Società viene trasferita in India a Bombay. L’accoglienza del pubblico più colto del subcontinente è notevole. L’enfasi posta sulla sapienza indiana promossa da Blavatsky ed Olcott contribuisce più o meno esplicitamente alla causa del risveglio indiano con le sue forze neo – induiste comprese quelle indipendentiste. Il giovane Gandhi conosce ed approfondisce le scritture della propria terra natia a partire dai suoi anni di formazione in Inghilterra grazie al contatto con degli affiliati alla Società. La Bhagavad Gita che accompagna la vita intellettuale e pratica del Mahatma storico è, per sua stessa ammissione, un testo che senza la Teosofia non avrebbe conosciuto. È pure grazie a tale percorso interiore che il leader politico riconosce di essersi sbarazzato della visione, indottagli dai missionari cristiani, di un’India costellata da superstizioni (M. Introvigne, Le nuove Religioni, Sugarco ed. p. 271, Milano 1989).
Il periodo indiano corrisponde ad una conversione – sarebbe meglio dire predilezione – dei due fondatori al buddhismo, dopo il primo soggiorno a Bombay e dei viaggi a scopo di ricerca nel nordest del paese viene fondata la rivista “The Theosophist” che viene tutt’oggi pubblicata diventando veicolo di contatto più sistematico tra gli affiliati di tutto il mondo. Nel loro “pellegrinare” messianico la medium e il colonnello si trattengono tra il 1880 e il 1881 nello Sri Lanka. È qui che Olcott compila un suo catechismo buddhista ancor oggi in uso presso i religiosi della ex Ceylon. L’opera vale al teosofo un indiscutibile riconoscimento da parte dei buddhisti cingalesi che lo identificano ancor oggi come il principale artefice della riscoperta delle più autentiche radici del buddhismo. Il lavoro di Olcott sostiene ulteriormente il fenomeno di diffusione nel mondo di concetti e lessico orientale. La particolare enfasi posta sul concetto di karma, che sostiene ampiamente l’intera dottrina teosofica, trova nel contributo buddhista del colonnello uno dei suoi pilastri.
Nella primavera del 1882 la sede indiana della Società Teosofica viene trasferita ad Adyar nei pressi di Madras, l’attuale Chennai. In quella sede si incontrano uomini politici, scienziati, filosofi ed artisti di tutta l’India e di molti altri paesi del mondo sia orientale che occidentale. Aderiranno più o meno formalmente ai principi della teosofia personaggi dello spessore di Rabindranath Tagore, Thomas Alva Edison, William Butler Yeats, Nicolas Roerich, ecc. (Antonio Girardi, a cura di, La Società Teosofica, storia, valori e realtà attuale, Edizioni teosofiche Italiane, pp. 260 – 261, Vicenza 2014).
Annie Besant, l'erede di Madame Blavatsky
Con la morte della Blavatsky, avvenuta in Inghilterra nell’estate del 1891 per le complicazioni di un’influenza, la Società prosegue il proprio operato seguendo le tracce segnate dalla medium russa. Poco prima della sua morte quest’ultima nomina la britannica Annie Besant (1847 – 1933) “Segretaria principale del gruppo interno della sezione Esoterica e archivistica degli insegnamenti”, si tratta di un passaggio di consegne che si concretizzerà nel 1907, dopo la morte del colonnello Olcott, con la sua nomina a presidentessa della Società.
Nella prima parte della propria vita la Besant è un’attivista politica per la causa dei diritti delle donne nel proprio paese. La sua amicizia con il commediografo G. Bernard Shaw (1856 – 1950) ed altri intellettuali del periodo getta le basi per la futura formazione del Partito Laburista Inglese. Fondamentale è il suo ruolo nell’organizzazione del primo storico sciopero delle lavoratrici dei fiammiferi inglesi. La verve e la curiosità intellettuali portano la giovane ribelle ad avvicinarsi alla Società Teosofica nel 1889. Da sua rappresentante di spicco diventa conferenziera della Società al Parlamento Mondiale delle Religioni di Chicago del 1893 dove, ricordiamo, spicca a sorpresa la figura del rappresentante dell’induismo Swami Vivekananda. Colpita dalle relazioni dei diversi esponenti dei saperi dell’Oriente, poco dopo l’evento vediamo la donna in viaggio alla volta dell’India per apprendere le dottrine specialmente della tradizione indiana e diffondere al contempo le conoscenze dell’occultismo teosofico. Fedele alla propria natura d’attivista diviene membro del Congresso Nazionale Indiano per il quale si impegna nella sua lotta per l’autogoverno in una visione però interna al Commonwealth. Traduce in quegli anni la “Bhagavadgita” in inglese e si adopera con successo alla realizzazione dell’Istituto Centrale Hindu situato a Benares che da lì a poco rappresenta il principale punto di riferimento formativo dell’intero subcontinente diventando l’Università Nazionale Indiana. L’incessante fervore umanitario della nuova presidentessa della Società porta alla nascita, nel 1908, dell’Ordine Teosofico di Servizio, per organizzare in modo sistematico le differenti attività di servizio esistenti in seno all’organizzazione originaria. Coniugando politica e filantropia nasce in questa fase l’Associazione dei Figli e delle Figlie dell’India con lo scopo di far nascere nei suoi aderenti amore per la patria e senso civico. Il Congresso la nomina nel 1917 sua presidentessa, carica che regge con lo spirito attivo ed intraprendente che la contraddistingue per tre anni quando viene ad essere sostituita da M.K. Gandhi che ella aiuta nelle sue prime campagne di non cooperazione. La morte sopraggiunta all’età di 86 anni nel 1933 impedisce alla donna di ad assistere al compimento dell’indipendenza indiana ed alle nefaste conseguenze politiche e sociali della Partition.
Una certa penalizzazione al crescente sviluppo della Società Teosofica viene procurato, durante la presidenza di Annie Besant, dal “caso” Krishnamurti (1895 – 1986). Nel corso del secondo decennio del ‘900 un teosofo di alto rango, Charles Leadbeater (1847 – 1934), crede di aver individuato nel giovane indiano Jiddu Krishnamurti l’incarnazione del bodhisattva Maitreya, la prossima incarnazione del Buddha storico unanimemente accettato ed atteso dai buddhisti di ogni scuola. Successivamente viene visto nel ragazzo pure una potenziale incarnazione di Cristo. Il ragazzo è adottato dalla Besant e formato, sotto la guida di Leadbeater, alla conoscenza profonda di un considerevole numero di scuole religiose di ogni tempo e cultura. Probabilmente esasperato dalle estenuanti pratiche e dalle aspettative su di lui riversate, nel 1929 Krishnamurti annuncia di non essere alcun messia e di voler abbandonare la Società per potersi dedicare al lavoro di supporto al prossimo nel deprogrammarsi dalle insidie delle credenze preconfezionate indotte con le comuni prassi educative e di ricercare autonomamente quello che può essere considerato Verità. Il successo di Krishnamurti negli anni successivi è considerevole tanto da farlo diventare, volente o nolente, uno dei “maestri” della controcultura occidentale. La Società accusa il colpo ma non desiste nel suo operato grazie alle opere filantropiche e di ricerca di stampo sincretista che continua a caratterizzarla.
Conclusioni
Quello della Società Teosofica è stato un contributo indiscutibile alla riscoperta dell’Oriente e soprattutto dell’India. In realtà da Alessandro in poi l’Oriente misterioso non mai ha perduto il suo fascino, ma l’impareggiabile visionarietà della Blavatsky e l’infaticabile determinazione della Besant compongono un’esperienza pressoché unica nella storia del sincretismo religioso. Il successo del progetto originario della Blavatsky è evidente e non chiede approfondimenti ulteriori considerando che tra alti e bassi le associazioni che si rifanno più o meno direttamente al suo lavoro sono attive in ogni angolo del globo. Quello che poi sorprende nello studio della Società Teosofica sono i risultati ottenuti a favore della divulgazione del sapere indiano presso le genti di quella terra. In un epoca dove la dominazione britannica ed il proselitismo cristiano mette in difficoltà la fiducia del vasto subcontinente nella propria cultura originaria compaiono iperboliche narrazioni sulle facoltà straordinarie in possesso dei detentori dei “segreti” della sapienza indo – buddhista. Testi e catechismi impensabili all’epoca vengono proposti alle élite più colte dell’India che trova strumenti per una fiera autorappresentazione. Un ponte tra est ed ovest del mondo con percorsi bidirezionali è in estrema sintesi il contributo della Società Teosofica al mondo. Una molteplicità di concetti che permeeranno la controcultura americana e definiranno i campi d’indagine della New Age sono presenti in nuce negli insegnamenti teosofici.