Le origini antiche di Kundalini
luglio 05, 2021di Kenan Digrazia
Kuṇḍalinī कुण्डलिनीè un termine sanscrito impiegato in alcuni testi della mistica Tantra per indicare quell'aspetto della Śakti, il Potere dell'Energia divina, che risiede in forma quiescente in ogni individuo. Sin dalla sua comparsa, avvenuta probabilmente intorno all'VIII secolo d. C. nel Tantrasadbhāva, molti maestri hindū hanno cercato di “importare” questo simbolo dalla grande valenza anche all'interno dei propri cammini di realizzazione – e ciò sicuramente resta valido anche per lo Yoga. È ormai certo che, ben prima della sua menzione diretta, il senso spirituale associato a Kuṇḍalinī fosse già stato discusso sotto altri nomi o circonlocuzioni, per esempio nelle prime opere del corpus dei Bhairava Tantra, come il Netra Tantra; ciò si deve a una tipica caratteristica della mentalità indiana, ovvero la sua capacità di dare forme e nomi sempre nuovi ad antichi invarianti concettuali, come è accaduto e accade, ad esempio, per i nomi delle potenze divine o per gli avatar. La straordinaria proliferazione e accumulazione di simboli sovrapposti di medesime realtà divine resta una delle più affascinanti prerogative dell'approccio indiano alla comprensione dell'Essere.
L'aggettivo
sanscrito kuṇḍalin
significa "circolare, anulare". Si presenta come un
sostantivo per "il
serpente" (nel senso "arrotolato", come "formando
circoli,
spire")
per la prima volta nella
Cronaca
Rajatarangini del XII
secolo (I.2). Kunda, un sostantivo con il significato di "ciotola,
vaso d'acqua" si trova come nome di un Naga
nel Mahabharata 1.4828. Il femminile kundali ha il significato di
"anello, braccialetto, bobina (di una corda)" nel sanscrito
classico, ed è usato come nome di una Shakti "simile a un
serpente" nel tantrismo già nell'XI secolo, nel Saradatilaka.
Questo concetto è adottato poi
come Kuṇḍalinī come
termine tecnico nell'Hatha yoga nel XV secolo e diventa ampiamente
utilizzato nelle Yoga Upanishad nel XVI secolo.
Poiché quasi ogni dottrina religiosa hindū si riallaccia a una sua precedente elaborazione, non meraviglia che sia possibile tracciare persino le origini vediche di Kuṇḍalinī. Si è detto spesso che il rispetto che l'induismo moderno riserva alle Scritture vediche sia solo formale – e ciò sicuramente è vero per quanto concerne la profonda comprensione e la pratica quotidiana del simbolismo vedico. Tuttavia, è opinione sicura di chi scrive, che tale rispetto poggi le proprie basi sulla consapevolezza del fatto che ogni conoscenza sacra, ogni via, compreso lo Yoga, possa essere ritrovato in quelle Scritture da un occhio attento, naturalmente quando intuito e compreso sotto altri “travestimenti” semantici. Che ciò derivi da un circolo ermeneutico a posteriori, cioè da una lettura del testo forzata su concetti successivi, o che, al contrario, proprio le dottrine correnti derivino da una rielaborazione del senso originale di quegli scritti, è materia di interminabili (e francamente anche inutili) dibattiti tra studiosi. Diciamo solo che, a nostro modesto parere, entrambe le situazioni si verificano all'interno della tradizione hindū, ma forse con una prevalenza del secondo fenomeno.
In
ogni caso, senza troppi giri di parole, veniamo dunque alla prima
menzione dell'azione dell'Energia divina sotto il possibile
simbolo
di Kuṇḍalinī
nei Veda. Essa si ritrova nell'Atharva Veda [AV], non nuovo ad
un'attenzione maggiore, rispetto al Ṛg
Veda, alla componente “femminile” della Divinità, dato che i
suoi mantra si fondano sulla fede (śraddhā)
nella Potenza della Parola (vāc,
femminile), capace di intervenire direttamente sulla struttura della
Realtà e di modificarla. Parola e Sacrificio tessono il filato
dell'Essere quali facce della stessa medaglia (Ṛg
Veda [RV] X, 130). In AV IV, 12, 1 (una preghiera per sanare la
frattura di un osso) si legge:
Rohaṇyasi rohaṇyasthnaśchinnasya rohaṇī | rohayedam arundhati ||
Tu ascendi, sì ascendi e ripari
la frattura della struttura ossea.
O Arundhatī, fa' che essa cresca!
Prima di spiegare la relazione Arundhatī-Kuṇḍalinī, dobbiamo fare un doveroso passo indietro per esporre, in estrema sintesi, il significato delle ossa nei Veda: esse rappresentano la struttura materica. Dalle ossa di Dadhyaṅ, figlio di Atharvan e primo rivelatore della madhuvidyā (la sapienza del Miele, la suprema forma di conoscenza dell'Uno nelle Upaniṣad), Indra ricavò un'arma micidiale (secondo alcuni il vajra stesso) che gli permise di sconfiggere “i novantanove vṛtra” (RV I, 84, 13). Non potendo entrare nei dettagli dell'affascinante vicenda, ricca di spunti simbolici ed esoterici, notiamo solamente che quanto detto significa che l'intero corpo materiale dell'individuo ove Agni (Fuoco mistico) dimora, portando la conoscenza di Brahman, deve assorbire una quantità di Luce tale da renderlo capace di dissipare le tenebre della multiforme ignoranza, simboleggiata dai novantanove vṛtra (il centesimo sarà vinto alla fine di questo Yuga, quando il male sarà definitivamente eliminato al sorgere del Sole di rettitudine). Così, materia e spirito si uniscono grazie all'azione di Agni “in forma di Dadhyaṅ”, naturalmente se favorita dalla pratica del devoto.
Ne consegue che il mantra vuole invocare l'Energia divina nascosta all'interno della struttura della materia, chiamata Arundhatī. Nella Yoga Kuṇḍalinī Upaniṣad, databile probabilmente intorno al XVI secolo, in un passo che connette la pratica yogica alla realizzazione di Kuṇḍalinī (I, 7-10), si legge che “Arundhatī è colei che risveglia Kuṇḍalinī, la sarasvatī nadī, ovvero la corrente d'ispirazione divina che per prima si riversa nella mente del devoto ricercatore della Verità (cfr. RV VII, 96, 1). L'Energia divina, così risvegliata dai mantra, che sono parti di essa in quanto Parola, ripristina il corpo alla salute olistica e lo guida a proseguire nel cammino del progresso spirituale.
Che Arundhatī sia dunque Kuṇḍalinī, o comunque la sua prima forma nel momento del risveglio, quando non è ancora pienamente realizzata, ma comincia a esplicitarsi, ci viene confermato da due elementi.
Innanzitutto, nella strofa appena letta, si ha il termine rohaṇī, da ruh-, “ascendere, crescere”, che presuppone un movimento guaritore verso l'alto, quell'ascensione di Kuṇḍalinī che trasforma il corpo a partire dai cakra della colonna vertebrale:
«Scossa dal bindu, l'immortale Ricurva (Kuṇḍalī) si drizza in una linea; essa è conosciuta allora come Diritta (Rekhinī).» (Tantrasadbhāva, VIII secolo circa, nella traduzione di R. Torella)
Non a caso, nella strofa successiva del medesimo inno (AV IV, 12, 2), emerge il senso spirituale di quanto detto, non limitato alla semplice guarigione corporea, ma che vuole estendersi alla piena realizzazione dell'intero (sarva) essere dello yogin:
Yat te riṣṭaṃ yat te dyuttam asti peṣṭraṃ ta ātmani | dhātā tad bhadrayā punaḥ saṃ dadhat paruṣā paruḥ ||
Quel che nel tuo Ātman si sia
rotto, incrinato o infiammato,
Dhātṛ lo sani per la tua gioia,
unendo tutto, pezzo per pezzo
Non serve tradurre ātmani come “nel corpo”: l'Ātman è compreso in modi molteplici a seconda del proprio livello spirituale (cfr. Chāndogya Upaniṣad VIII, 7-12), quindi ha molteplici traduzioni valide. Dhātṛ è il Creatore primordiale (RV X, 190, 3), qui invocato proprio per ripristinare la struttura umana al suo stadio originale, perfetto e integrato.
In secondo luogo, Arundhatī deriva probabilmente dalla radice rudh-/ruh-, “germogliare, manifestarsi”, contenendo implicitamente il probabile riferimento a quel drizzarsi della Ricurva Kuṇḍalinī, che infatti è rappresentata da un serpente arcuato. Arundhatī è dunque “l'anello di congiunzione” tra le prime concezioni “śaktiche” d'epoca brahmanica, imperniate su Sarasvatī, e quelle delle nuove istanze tantriche, espansesi in maniera più evidente dall'impero Gupta in poi. «Il tantrismo, “brahmanizzato”, ha “tantricizzato” l'induismo diffusamente, costituendone, per certi aspetti, il fondo segreto.» (André Padoux, p. 34).
Nella mitologia successiva, Arundhatī sarà rappresentata come una sapienza superiore a quella dei sette ṛṣi, infatti è l'ispirazione divina sui quali essi si fondano e che gli ha permesso di realizzare Brahman, e poi passerà a indicare alternativamente una stella doppia dell'Orsa Maggiore, costellazione dei sette ṛṣi, infatti, e un simbolo di fedeltà coniugale, anche di unione non-duale tra Brahman, elemento maschile, e l'anima umana, elemento femminile, o tra Śiva e Śakti, altro motivo affondante le proprie origine in RV X, 145 e 159.
Infine, notiamo che, ancora una volta, la prassi per il “risveglio” e per la “risalita” di Kuṇḍalinī segue strade differenti a seconda della tradizione e quindi dei testi adottati. L'indologa francese Lilian Silburn, che si è occupata teoricamente e attivamente di questo argomento, distingue fra i metodi che derivano dalle tradizioni del Kula, e quelli molto più tardi che fanno capo a testi quali la Haṭhayoga Pradīpikā, la Gheraṇḍa Saṃhitā (tradotta e commentata gradualmente da Marco Sebastiani su questa rivista) e la Śiva Saṃhitā (ca. XV secolo d. C.). Questi ultimi prevedono un impegno continuo basato molto sul lavoro sul corpo fisico e sottile che si riallaccia alle vedute dello Hatha Yoga. I testi tantrici precedenti fanno invece riferimento a metodi più assimilabili alla mistica, coinvolgendo la spiritualità intrinseca in elementi quali la parola, il pensiero, la consapevolezza e la meditazione, esattamente come sottinteso nelle strofe dell'Atharva Veda qui esaminate. Qualunque sia la via intrapresa, ricordiamoci dell'ingiunzione del maestro Svātmārāma (“colui che trova la sua gioia nel Sé superiore”) del XIV sec.:
« Kuṇḍalinī può dare la liberazione agli yogin, ma incatenare gli ignoranti.»
(citato in Feuerstein, p. 169)
BIBLIOGRAFIA:
Lilian Silburn, La kuṇḍalinī o L'energia del profondo, traduzione di Francesco Sferra, Adelphi, 1997
Georg Feuerstein, Tantra. The Path of Ecstasy, Shambhala publications, 1998
André Padoux, Tantra, a cura di Raffaele Torella, traduzione di Carmela Mastrangelo, Einaudi, 2011
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