Patanjali Yoga Sutra, Libro Secondo: Gli Strumenti [new]

febbraio 07, 2018


 Il secondo libro dei sutra di Patanjali è forse quello più dibattuto, in quanto si entra nel vivo della pratica dello yoga ovvero si affrontano gli strumenti che condurranno il praticante sulla strada del ricongiungimento, trattato nel primo libro. In particolare, nella prima parte del secondo libro, vengono gettate le basi imprescindibili per affrontare poi la trattazione delle singole componenti della pratica dello yoga. Patanjali affronta le domande che sono insite nell'uomo, in tutte le epoche: le cause dell' infelicità, le conseguenze delle nostre azioni e il senso del mondo ovvero quale è lo scopo della nostra vita. Non sono temi da poco. Staremo particolarmente attenti a non dare interpretazioni preconcette. Giungiamo poi  alla formulazione dell’ashtanga yoga, ovvero lo yoga degli otto passi. Otto gradini successivi, ma permeati tra loro, che compongono la pratica giornaliera. Regole di comportamento, pratica fisica, meditazione, fino ai livelli più elevati. Il secondo libro degli Yoga Sutra di Patanjali è un viaggio meraviglioso nello yoga della tradizione più antica.




Patanjali Yoga Sutra, Libro Secondo

Sadhana Pada
Capitolo sugli strumenti


YSII:1. Tapah svadhyayes isvarapranidhanai kriyayogah
Lo yoga è azione e si realizza in tre componenti:  pratica intensa, studio di sé‚ abbandono allo spirito assoluto.

YSII:2. Samadhi bhavana arthah klesa tanukarana arthasca
Il suo scopo è di ridurre l'infelicità e il ricongiungimento tra spirito individuale e spirito universale.

Lo yoga è azione. Si realizza nella pratica, non con la teoria o la speculazione. Anche lo studio di sè avviene tramite la pratica e non concettualmente. L’azione è talmente connaturata con lo yoga che si parla comunemente di "yoga dell’azione". Il Kriya Yoga o yoga dell'azione viene menzionato anche da Krishna nel poema della Bhagavad Gita; secondo alcuni storici ha origini antichissime, secondo gli induisti deriverebbe addirittura dalle ere caratterizzate da una maggiore illuminazione spirituale. Già ai tempi di Patanjali si riteneva di trovarsi in un'epoca di materialismo e oscurantismo, ma probabilmente la situazione è poi anche peggiorata nei secoli successivi. Vista la raffinatezza filosofica raggiunta ed altri elementi, è certo che l'autore raccolga una tradizione più antica.
Questo concetto sarà ripreso anche dai testi classici succcessivi, citiamo ad esempio l'Hatha Yoga Pradipika, vero pilastro del pensiero yogico, scritto nel 1400 circa, nei versi 66 e 67 del primo libro leggiamo: "Il successo è raggiunto da chi pratica Yoga assiduamente. Come può accadere al pigro? Non si può ottenere il successo nello Yoga leggendo i testi. Il successo non si raggiunge indossando l'abito adatto o parlando di Yoga. Solo la pratica è causa del successo; non c'è alcun dubbio, questa è la verità."
Lo yoga è azione anche nel senso di trasformazione e purificazione del praticante.
Il Krya Yoga della Gita e di Patanjali non deve essere confuso con lo stile di yoga del maestro Yogananda, vissuto ad inizio 900, e della tradizione alla quale egli si ispira. Egli divenne famoso per la sua predicazione negli Stati Uniti e per il  racconto dei propri e altrui innumerevoli miracoli pubblicato nel libro “Biografia di uno yogi”. Egli chiamò così il suo stile di pratica in onore a queste due tradizioni antiche, ma il suo pensiero è lontano da queste.

Teniamo a mente che pratica intensa, studio di sé e abbandono allo spirito assoluto, a cui si riferisce questo primo sutra del secondo libro, saranno ripresi successivamente e costituiscono gli ultimi tre precetti del secondo passo dello yoga, ovvero le regole morali verso se stessi. Apre così il capitolo sugli strumenti dello yoga perché questi tre sono gli elementi basilari che dobbiamo trovare dentro di noi. La pratica intensa si riferisce ad una vita semplice ed austera, ma anche ad una pratica metodica e disciplinata. Patanjali ricapitola quindi che senza una pratica disciplinata non c'è yoga, questa pratica porta a studiarsi altrimenti è fine a se stessa. Coerentemente al primo libro, Patanjali indica lo yoga dell'azione come una pratica che ci fa scoprire la nostra parte spirituale assoluta, divina, ma anche il cui scopo è alleviare l'infelicità durante il cammino.

Nel primo sutra sono definiti i mezzi da impiegare sulla via dello yoga. Nel secondo sutra è definito lo scopo dello yoga. Lo yoga sappiamo consiste nella cessazione delle oscillazioni della mente, ottenuta con i mezzi di cui dicevamo e il cui obiettivo è l’eliminazione dell’infelicità e la scoperta e l’elevazione del proprio spirito. Ma cosa è l’infelicità? Da cosa è prodotta?

YSII:3. Avidya asmita ragadvesa abhinivesah klesah
L'infelicità è prodotta da: ignoranza, egoismo, attaccamento, odio e paura della morte.

YSII:4.Avidya ksetram uttaresam prasupta tanu vicchinna udaranam
L'ignoranza  è la causa delle altre fonti di infelicità, sia che sussista in forma latente, in forma attenuata, in forma intermittente o al massimo grado.

YSII:5. Anitya asuci duhkha anatmasu nitya suci sukha atmakhyatir avidya
L'ignoranza è considerare eterno ciò che è caduco, puro  ciò che è impuro, piacere ciò che arreca dolore e confondere il proprio spirito individuale con ciò che non lo è.

Quali sono quindi le cause di sofferenza che andremo a mitigare grazie allo yoga, sulla strada del ricongiungimento con lo spirito assoluto? L'ignoranza è la causa di tutti i mali. Le cause di infelicità qui elencate sono molto simili ai tre veleni del buddismo: ignoranza ovvero avydia, attaccamento e odio. Qui Patanjali aggiunge egoismo, ovvero asmita, e paura della morte. Questi aspetti saranno dettagliati nei prossimi sutra.
L'ignoranza non comporta solamente la non conoscenza delle cose, rispetto alla quale non si possiedono semplicemente gli strumenti o le nozioni, questo sarebbe comunque un male più tollerabile rispetto ad interpretare il mondo in modo errato e contrario alla sua forma corretta. Chi è ignorante rispetto allo spirito non si limita a non conoscere, ma ha una sua conoscenza errata che ritiene vera. La sua vita diventa quindi misera, più misera degli animali che si limitano a non comprendere. Il giudizio di Patanjali sulle persone ignoranti appare qui spietato, sono persone che infliggono sofferenza a se stessi e agli altri. II sutra I:33, l'affermazione che la via dello yoga consiste anche nel mostrare compassione verso i deboli,  mitiga forse in parte questo giudizio.
Ignoranza è per l'autore non solo “non conoscere”, nel significato di mancare di erudizione o di apprendimento in qualcosa di codificato, come intendiamo spesso nel senso comune,  ma “non conoscere” anche come “non sentire” a livello spirituale. Ignoranza è non avere nozione di come contemplare la propria parte spirituale o, ancora peggio, identificarsi con i pensieri ed il corpo (indetificarsi con l'a-atman, il “non spirito individuale”). Questo è un concetto fondamentale per Patanjali da cui si comprende l'importanza della pratica, che conduce ad una conoscenza, che si estende su vari gradi, per evitare una vita di miseria ed ignoranza.

YSII:6. Drg darsana saktyor ekatmateva asmita
L'Egoismo è l'identificazione di colui che vede con la cosa vista.

Al secondo posto della classifica delle caratteristiche che conducono l'uomo all'infelicità troviamo l'egoismo, in quanto consiste nel proiettare se stessi in ogni aspetto dell'universo che ci circonda, ovvero, mettendo il nostro ego al centro di tutto, vediamo solo noi stessi riflessi in tutte le cose. Questa definizione di ego è molto efficace, chi ha un grande ego non riesce a vedere che se stesso riflesso in tutto il sapere e la bellezza del mondo e delle altre persone, ovvero identifica il soggetto con l'oggetto. I Tamil, una popolazione dell'India del Sud, quando una persona parla per mettere in mostra se stesso e non per condividere un pensiero, quando ostenta la propria ricchezza o il proprio stile di vita, per definire chi si autocelebra, chi dimentica di essere umile, hanno un modo di dire molto divertente: “grande coltello, piccolo uomo” ovvero: chi ha bisogno di portare un grande coltello per sentirsi forte è come chi ostenta un grande ego per darsi più valore, cioè una persona di poca qualità. I Tamil sono guerrieri, sono le tigri del Tamil, di coltelli e di persone ne sanno molto.
Per gli induisti l'Io è qualcosa di molto pericoloso rispetto all'interpretazione della realtà, che rischia di far vedere solo se stessi, ma che può diventare positivo quando rappresenta la sana espressione della propria personalità. Citavo l'induismo perché Shiva, nella rappresentazione di Signore dello Yoga, viene immaginato con un cobra, simbolo dell'ego, intorno al collo, per rappresentare il fatto che, ricondotto alla giusta posizione, l'ego può diventare un piacevole ornamento. Questa immagine mi è sempre piaciuta molto. Chi pratica yoga, i maestri in modo particolare, ben conoscono le insidie dell'ego, il non vedere i propri allievi, ma vedere essi come un riflesso di se stessi, il non vedere la propria piccolezza di fronte all’universo ed allo spirito universale, ma vedere se stessi e la propria presunta grandezza riflessi nell’universo. L’egoismo, tra tutti i veleni che causano infelicità è forse il più subdolo perché si insinua anche in menti illuminate e a nulla serve una dissimulazione apparente per eliminarlo.

YSII:7. Sukha anusayi ragah
 Si ha  attaccamento verso qualsiasi cosa arrechi piacere.

YSII:8. Duhkha anusayi dvesah
Si ha repulsione verso qualsiasi cosa arrechi dolore.

YSII:9. Svarasa vahi viduso api taharudho abhinivesah
La paura della morte domina tutti, perfino il saggio.

Arriviamo quindi alle ultime due cause di infelicità: attaccamento e paura della morte. Viene ribadita la necessità di abbandonare l'attaccamento alle cose del mondo e quindi ai concetti di piacere e dolore, perché effimeri. Il piacere e la sua ricerca generano aspettative e di conseguenza sofferenza. Paradossalmente ricerca del piacere e paura del dolore hanno la stessa natura, sono fughe nel futuro per ritrovare qualcosa del passato, che ci impediscono di vivere il presente.
Infine la paura della morte è per Patanjali la causa di infelicità più connaturata all'uomo, tanto che può rifarsi viva in qualsiasi momento, anche dopo aver condotto una vita nella pratica e nella saggezza. Seppure sia una forma di attaccamento, l'autore ritiene importante comunque citarla, forse perché lo tocca da vicino. Oltre ad essere una forma di attaccamento alle passioni della vita, è anche una forma di ego, l'unica cosa che va a morire con la morte fisica è infatti l'ego, riflesso della nostra mente, lo spirito è per Patanjali eterno, lo sappiamo.

YSII:10. Te pratiprasava heyah suksmah
Le cinque cause della sofferenze possono essere eliminate, riconducendole alla loro fonte originaria.

YSII:11. Dhyana heyastad vrttayah
Le oscillazioni della mente causate dalle cinque cause di sofferenza scompaiono attraverso la pratica della meditazione (dyhana).

Come dicevamo Patanjali sta procedendo dal macroscopico verso il particolare, nel primo libro ha trattato il  ricongiungimento (samadhi), ora ci parla della meditazione (dyhana); come vedremo tra poco, questi sono rispettivamente ultimo e penultimo elemento tra gli otto che costituiscono la pratica dello yoga.
L'infelicità causata da ignoranza, ego e attaccamento, può essere contrastata e vinta con un processo particolare: riconducendo l'effetto alla causa originaria (prati-pasav). E' un principio conosciuto ed applicato in molti ambiti, anche quando la psicanalisi riporta il paziente alla propria infanzia, per superare i traumi che hanno causato l'infelicità. Fino a che non si va alle radici, il problema non può essere risolto. Andando a ritroso Patanjali afferma che la causa prima di tutte le afflizioni è la mancanza di consapevolezza, l'ignoranza. E' quindi necessario portare consapevolezza nella propria vita, essendo presenti in ogni momento e consapevoli del proprio spirito. Per poter vedere la nostra parte spirituale viene in soccorso la meditazione, componente finale della pratica yoga, alla quale si arriva dopo aver praticato gli altri sei passi, la parte di rispetto delle regole etiche, quella più fisica, o meglio esteriore, costituita da posizioni e respirazione, quella maggiormente interiore di cui fa parte la meditazione stessa e conduce il praticante all'ottavo e più importante passo, il ricongiungimento con lo spirito assoluto. Ma non anticipiamo i temi della seconda parte del capitolo presente.

YSII:12. Klesamulah karmasayo drstadrsta janma vedaniya
 Ogni azione, generata dalla sofferenza, ha una conseguenza sia nel presente che nel futuro.

YSII:13. Sati mule tadvipako jatyayurbhogah
Fino a che la sofferenza resterà l'origine delle azioni, le conseguenze si ripercuoteranno nella vita.

YSII:14. Te hlada paritapa phalah punya apunya hetutvat
La virtù porta piacere; il vizio arreca dolore.

YSII:15. Parinama tapa samskara duhkha ir guna vrtti virodhacca duhkham eva sarvam vivekinah
La persona consapevole sa che l'infelicità è causata dai mutamenti e dai conflitti generati dalle cinque cause della sofferenza.

YSII:16. Heyam duhkham anagatam
Si deve prevenire anche il timore delle sofferenze future.

La persona consapevole sulla via dello yoga, che ha conosciuto lo spirito, interrompe la propria sofferenza combattendo le cause che ne sono all'origine. Questa interruzione fa si che le proprie azioni non siano più causa di sofferenza per se stessi e per gli altri. La persona consapevole vive nel presente: sa che le azioni passate non possono essere cambiate e che quindi è inutile vivere nei ricordi, ma è anche distaccato da ciò che accadrà nel futuro, non ha aspettative, sa che il ricongiungimento con lo spirito assoluto è tutto quello di cui ha bisogno per raggiungere il benessere. Questi cinque sutra, non lo neghiamo, non sono di facile traduzione ed esistono interpretazioni significativamente differenti da quella proposta, in quanto si parla di un tema dibattuto in tutta la storia dell'Asia, ovvero il karma, la conseguenza delle azioni. Secondo l’interpretazione proposta, nel momento in cui le nostre azioni non hanno uno scopo, esse non sono più generate dalla ricerca del piacere, dell’appagamento di un desiderio o dalla paura della sofferenza, in questo momento le nostre azioni si posizionano fuori dalle leggi del karma e non hanno quindi più effetto sul karma stesso. Questa condizione porta secondo gli Induisti a sfuggire alla legge delle eterne rinascite. Patanjali tornerà su questo concetto in modo più esteso.
Questi sutra riflettono una notevole sofisticatezza e maturità filosofica, ma ancora dippiù ciò è evidente nei prossimi versi, che trattano il senso del mondo.  Riportiamo consecutivamente tutti i sutra sull'interpretazione della realtà ed il senso della vita, in modo da non interrompere il filo logico del pensiero.

YSII:17. Drastr drsyayoh samyogo heyahetuh
Deve essere interrotta l'identificazione tra colui che osserva e ciò che viene osservato.

YSII:18. Prakasa kriya sthiti silam bhutendriya atmakam bhoga apavarga artham drsyam
Ciò che viene osservato possiede le qualità della beatitudine e quindi può dare la liberazione dalla sofferenza.

YSII:19. Visesa avisesa linga matra alingani gunaparvani
Ci sono quattro tipi di qualità in ciò che si osserva: il definito, l'indefinito, il differenziato e l'indifferenziato.

YSII:20. drasta drsimatrah suddho pi pratyaya anupasyah
Colui che osserva, sebbene abbia consapevolezza, vede attraverso le distorsioni della mente.

YSII:21. tadartha eva drsyasya atma
La cosa osservata esiste in funzione di colui che osserva.

YSII:22. krtartham pratinastam apy anastam tadanya sadharanatvat
Sebbene la cosa osservata non abbia importanza per la persona consapevole, essa è importante per chi non ha ancora intrapreso il percorso di consapevolezza.

YSII:23. Svasvami śaktyoh svarūp oplabdhi hetuh samyogah
Per chi non ha intrapreso questo percorso, colui che osserva e ciò che osserva si presentano insieme, in modo tale che sembrano indivisibili.

YSII:24. tasya hetur avidya
La causa di questa indivisibilità è l'ignoranza.

YSII:25. Tad abhabat samyoga abhavo hanam taddrseh kaivalyam
La dissociazione di colui che osserva e di ciò che osserva è il rimedio, la liberazione dall'ignoranza.

YSII:26. Viveka khyatir aviplava hanopayah
La consapevolezza di ciò che si osserva, è il mezzo per la soluzione dell'ignoranza.


Non bisogna identificarsi con i propri pensieri e con le proprie percezioni. Il concetto è simile a quanto elaborato nel primo libro, ma più specifico: se riusciamo a porci un gradino più in alto dei nostri pensieri, placando la mente ed osservandola, cogliamo l'essenza dello spirito e facciamo cessare la sofferenza. Se possiamo osservare il nostro corpo, non ci identificheremo con il nostro corpo, se possiamo osservare i nostri pensieri, non ci identificheremo con la nostra mente, colui che osserva, il nostro spirito, è più in alto dei pensieri. In questo senso Patanjali rende lo spirito qualcosa di oggettivo, scentifico, osservabile, misurabile, perno centrale della sua interpretazione della vita. Il pensiero scientifico occidentale è però molto differente da quanto enunciato in questi sutra, in quanto ritiene che esista una realtà oggettiva ed una possibilità di conoscenza che definiremo impersonale, ovvero tra osservatore e ciò che viene osservato non c’è nessuna partecipazione, altrimenti sarebbe viziato il risultato della misurazione scientifica. L’imparzialità dell’osservatore è necessaria. Patanjali al contrario afferma che non esiste nessuna conoscenza che sia impersonale. La natura stessa della conoscenza è individuale e personale. Questo non ci stupisce, Patanjali indaga questioni filosofiche legate allo spirito ed alle domande ultime: chi siamo? perché siamo qui? questo è un campo in cui la scienza dimostra facilmente tutta la sua limitatezza e per questo fa sorridere quanto spesso affermato e cioè che Patanjali abbia un approccio “scientifico”, nell’unico senso occidentale che il termine può avere. L’approccio di Patanjali è necessariamente filosofico e spirituale, forse perfino religioso. Avendo chiara questa premessa, sarà anche chiaro che per il nostro autore, quando osserviamo, sentiamo o percepiamo qualcosa, non siamo più gli stessi di prima e ogni volta vedremo quella cosa in modo differente.
Potrebbe sembrare oscuro il motivo per il quale Patanjali non apre il secondo libro sugli strumenti dello yoga elencando semplicemente gli otto passi, che tratterà invece nella seconda metà. Prima di entrare nei dettagli degli otto aspetti che costituiscono lo yoga, egli vuole essere sicuro di definire tre aspetti imprescindibili per la pratica: le cause di infelicità, le conseguenze delle azioni, il senso del mondo e quindi della vita. Perché esiste il mondo? Qual'è il senso di tutto questo? Patanjali afferma che il mondo esiste per permettere la liberazione, il ricongiungimento con lo spirito assoluto. Non c'è possibilità di elevazione spirituale per gli uomini senza aver sperimentato l'infelicità o la condizione d'ignoranza. Il ricongiungimento può essere realizzato solo attraverso questo percorso. Il mondo materiale esiste per poter sperimentare il mondo dello spirito, anzi il mondo materiale ha in sé il seme del mondo dello spirito. Per gli uomini la via verso la beatitudine ed il ricongiungimento con lo spirito assoluto deve partire dal mondo, bisogna conoscere l'attaccamento per potersene distaccare, l'ignoranza per poter conoscere, le oscillazioni della mente per placarle e vedere lo spirito. La sofferenza è l’esercizio per raggiungere l’illuminazione, o meglio lo yoga è l’esercizio con cui impariamo a sfuggire alla sofferenza e a comprendere il nostro spirito e il mondo di cui fa parte.
Senza questi concetti, capiamo bene, i successivi precetti perdono il loro vero significato. La pratica dello yoga ha i piedi in terra e la testa nel cielo, direbbe qualcuno, ma non lasciamoci trasportare dalla bellezza di questi sutra.

YSII:27. Tasya saptadha pranta bhumih prajna
Il potere di conoscere si consegue attraverso sette regioni.

YSII:28. Yoganga anusthanad asuddhi ksaye jnanadiptira viveka khyateh
Praticando lo yoga si eliminano le impurità e si consegue la conoscenza e l' illuminazione spirituale.

Fin dai commentari più antichi gli studiosi hanno cercato di interpretare quali fossero le sette regioni che conducono al potere di conoscere, all'illuminazione. Dai commentatori antichissimi come Vyasa, il rishi veggente, fino ai giorni nostri ognuno ha dato una propria spiegazione. Vyasa ad esempio ha enumerato questi sette passi secondo una sua visione molto particolare. Ammettiamo che il passaggio sia ermetico e lasci dei sottintesi, ma l'interpretazione più lineare inerente alla pratica dello yoga, secondo chi scrive, è quella che fa riferire le sette regioni alla purificazione dei sette chakra ovvero alla tradizione ayurvedica, oggi ben conosciuta. Secondo questa visione  alcune impurità e alcuni blocchi non permettono all'energia di scorrere dal primo centro energetico del corpo, alla base della spina dorsale, fino al settimo centro energetico alla sommità della testa, quando l’energia individuale si ricongiunge con l'energia che tutto pervade. Questo significato sembra anche rafforzato dal sutra successivo: lo yoga serve ad eliminare le impurità, che bloccano il fluire dell’energia e una volta fatto questo lo spirito e l’energia non hanno più confini. Rimandiamo questa tematica alla sterminata letteratura sui chakra e la cosiddetta anatomia sottile, qui sarà sufficiente constatare che per Patanjali le pratiche dello yoga, gli otto passi descritti nel prossimo sutra, permettono la liberazione dei centri energetici e l'illuminazione spirituale, in linea con tutta la tradizione successiva dell'Hata Yoga e del risveglio di Kundalini.

Solitamente questi primi 28 sutra vengono letti in modo precipitoso, perchè subito dopo inizia l'elenco dei passi dello yoga ovvero l'enunciazione dell'Ashtanga Yoga, ma, se ci soffermiamo un attimo, possiamo capire quanta saggezza ci sia in questa prima parte, seppure, innegabilmente, i successivi sutra siano il cuore dell'opera di Patanjali.

Ecco lo Yoga di Patanjali:


YSII:29. Yama niyama asana pranayama pratyahara dharana dhyana samadhayo ‘stavangani
Gli otto passi dello yoga sono:
> yama: osservanza di norme di comportamento etiche verso gli altri
> niyama: osservanza di norme di comportamento morali verso se stessi
> asana: le posizioni del corpo
> pranayama: il controllo della respirazione
> pratyahara: l'introspezione e il ritiro dei sensi
> dharana: la capacità di concentrazione
> dhyana: la meditazione
> samadhi: il ricongiungimento dello spirito individuale con lo spirito universale e la beatitudine che ne deriva

L'autore, dopo aver dato tutte le definizioni indispensabili per delineare il campo nel quale sta operando, fornisce le istruzioni, passo per passo, per arrivare alla beatitudine. Sebbene Patanjali indichi questi punti come passi successivi, non devono essere considerati compartimenti avulsi gli uni dagli altri, ma essi formano un'unica pratica dello yoga integrandosi tra loro. Sono successivi, ma integrati. E' stato spesso affermato, come dicevamo poc’anzi, che Patanjali abbia un approccio scientifico perché prescrive un percorso di azioni da compiere per arrivare all'illuminazione, alla cessazione della sofferenza ed alla beatitudine. Non è vago, non dice che “un bel momento capirai”, ma prescrive una formula, una via, uno stile di vita.
Non bisogna confondere l’Ashtanga Yoga di Patanjali con quello moderno del maestro Pattabhi Jois, le serie di asana da lui insegnate e lo stile di vinyasa yoga che lo caratterizza, molto famosi ai giorni nostri. Sri Jois chiamò così il suo yoga in omaggio a Patanjali e perché gli Yoga Sutra sono alla base della sua pratica, ma l’Ashanga di Patanjali e quello di Pattabhi Jois sono due entità ben distinte e separate da 2500 anni.

Inevitabilmente, il commento a ogni singolo aspetto che compone lo yoga, sarà più esteso di quanto fatto per il resto dell'opera; Patanjali utilizza spesso un solo termine per significare un concetto, che va necessariamente contestualizzato.  Fino a questo momento inoltre non abbiamo mai lasciato termini in sanscrito nella traduzione, per non appesantire il discorso e non rimandare a successive definizioni; per gli otto passi dell'Ashtanga Yoga faremo un'eccezione in quanto sono termini a cui tutti gli yogin si riferiscono comunemente e che sono diventati veri e propri monumenti. Ogni singolo termine ha dato luogo a sterminate disquisizioni, ma il filo del discorso è, in questa seconda parte del secondo libro, piuttosto lineare.


YSII:30. Ahimsa satya asteya brahmacarya aparigraha yamah
Yama, ovvero l'osservanza di norme di comportamento etiche verso gli altri, si compone a sua volta di cinque regole:
> ahimsa: non violenza
> satya: verità
> asteya: onestà
> brahmacharya: morigeratezza
> aparigraha: possedere solo l'indispensabile

Entra ora nel vivo la trattazione analitica di tutti e otto gli elementi costitutivi dello yoga. Iniziamo quindi con le norme di comportamento, etiche ovvero yama e morali ovvero nyama.  Il percorso dello yoga è sicuramente un percorso di crescita individuale interiore, l'obiettivo finale è dentro di noi, eppure il primo gradino sono le norme “sociali”, esterne a noi. Anche l'asceta non può vivere scollegato dalla società che lo circonda, al contrario lo yogin deve influenzarla positivamente ed agire nel sociale. Gli appassionati di questo messaggio troveranno nella Baghavat Gita una lettura entusiasmante, in particolare nel commentario di Sri Aurobindo, fermo sostenitore dello yoga delle opere.

La prima e più importante regola etica dello yoga, il primo gradino da intraprendere sulla via della beatitudine, è la non violenza. Letteralmente il termine significa a=non, himsa= nuocere o uccidere.
Questo è esattamente il concetto assunto a principio dal Mahatma Gandhi, estimatore degli Yoga Sutra. Uccidere, imporre sofferenze o essere partecipi all'uccisione o alla sofferenza di qualsiasi essere ha delle conseguenze a cascata sul mondo e su di noi, è contrario alla purificazione e il karma che ne deriva, ovvero le azioni complessive che si scatenano, sono considerate negative sotto ogni aspetto. Per Patanjali la non violenza è una condizione irrinunciabile anche solo per iniziare la via dello yoga. E’ il primo gradino del primo passo. Non è solo Patanjali a indicare questa via, tutto l'Induismo, da cui nasce ogni forma di yoga tradizionale, prescrive la non violenza. Ognuno è artefice del proprio destino e purtroppo a volte anche del destino degli altri esseri. Patanjali ha definito l'ignoranza proprio come considerare piacere ciò che arreca dolore. L'autore ha inoltre precedentemente trattato le leggi del karma ovvero le conseguenze delle azioni, proprio per far avere al lettore le basi di questi principi che ora sta trattando: “Ogni azione che genera sofferenza ha una conseguenza sia nel presente che nel futuro” (YS 2:12).
E' necessario chiarire che viene considerata violenza ogni azione in cui si vuole nuocere, in cui si esprime la specifica intenzione. Se la colpa deriva da un'azione fatta senza volontà, non è una colpa. Gli animali non hanno colpe, l'ignorante si, perché sa di nuocere. Inoltre, secondo le regole del karma, quando un'azione comporta inevitabilmente una sofferenza, bisogna scegliere la sofferenza minore.
Focalizzandoci un momento su alcuni temi divenuti di conversazione comune, possiamo dire che per questi motivi chi pratica l'ahimsa, chi adotta lo yoga come sentiero di vita, adotta anche determinate regole alimentari, è inutile e stupido forzare il ragionamento in altre direzioni. E ancora, per le ragioni legate alla volontà o all'evitabilità del nuocere, gli yogin non andranno in giro con la mascherina davanti alla bocca per non inspirare i microrganismi, come fanno alcuni sacerdoti gianisti, oppure non denigreranno l'agricoltura perché può comportare la morte di alcuni insetti. E ancora, per analizzare alcune obiezioni comuni nella dialettica, ma forse un po' sciocche, anche se mangiare frutti comportasse veramente la sofferenza delle piante, non nutrirsi sarebbe considerabile violenza contro se stessi e quindi un male peggiore. L’unico caso in cui sia possibile utilizzare la violenza, e in realtà i poemi e i miti induisti sono pieni di episodi nei quali i virtuosi protagonisti uccidono, rapiscono o combattono, è per far cessare un male peggiore.
Qualcuno, infine, traduce ahimsa con “amore”, è suggestivo e corretto, ma secondo chi scrive un po' forzato, amore in sanscrito si indica con la parola rati. Non-violenza significa comunque sicuramente anche “amore”.

Il secondo precetto delle regole etiche è Satya, termine sacro in tutto l'oriente, che significa “la Verità”, concetto che si spinge un po' oltre alla verità di pensiero, parola ed azione, oltre al vivere senza menzogna ed essere se stessi. Satya, Verità, è uno dei nomi di Visnù. Le quattro nobili verità sono il principio chiave del Buddhismo, duhkha-satya: verità del dolore; samudaya-satya: verità dell'origine del dolore ; nirodha-satya: verità della cessazione del dolore; marga-satya: verità della via che porta alla cessazione del dolore. Se ne potrebbe parlare a lungo, ma credo che il significato profondo risuoni nel cuore di ognuno di noi.

Un aspetto ampiamente dibattuto nelle scuole filosofiche asiatiche è se sia necessario dire o agire secondo verità qualora questo comporti sofferenza o violenza; gli esempi possono essere moltissimi e nei miti orientali sono molto comuni. La risposta in merito è pressoché unanime: non bisogna agire secondo verità, quando questo agire comporti sofferenza o violenza. Cosa fare se la verità rischia di ferire? Nell’antico poema epico del Mahabharata, si discute questo apparente dilemma: «La verità dovrebbe essere detta solo se piacevole e con modi piacevoli; la verità che ferisce non andrebbe detta. Tuttavia non si dovrebbe mai mentire per compiacere qualcuno». Queste azioni o menzogne diciamo “a fin di bene” seppure inevitabili possono avere delle conseguenze non positive (cattivo karma), ma comunque migliori di quelle che si verificherebbero se dicessimo la verità. La non violenza è il primo ineluttabile principio e tutti i precetti sono in ordine di importanza, quindi bisogna trasgredire quello meno importante qualora comporti l'infrazione di quello più importante. Rimanendo nel contesto del Mahabharata, moltissimi sono i casi in cui i prìncipi protagonisti, per mantenere la parola data, per rispettare la verità, si trovano in situazioni molto difficili, come ad esempio vivere nella giungla vestiti di pelli. Questo atteggiamento è considerato virtuoso.

Il termine asteya, onestà, può avere varie sfumature: dal semplice non rubare al non desiderare le cose degli altri, dal non essere avari ad abbandonare il concetto di “mio”, eccetera. Brahma-charya o morigeratezza, comporta il non abbandonarsi alle passioni, ma in realtà il termine composto significa letteralmente “condotta in armonia con lo spirito assoluto”, quindi anche in questo caso il concetto va leggermente oltre la continenza sessuale o alimentare, di cui però costituisce l'inizio. Aparigraha, quinto e ultimo precetto etico, è il non-possesso ovvero il possedere solo l'indispensabile. Ai monaci buddisti è concesso di possedere la veste da indossare e la ciotola con la quale ricevere le offerte e sfamarsi. In questo caso il necessario è ridotto "all'osso", ma ho conosciuto monaci, anche in vista, che avevano nella stanza l'impianto Hi-Fi e questo non li rendeva sicuramente dei trasgressori, ma il concetto alla base del precetto è anche che nel tempo cambiano le necessità e che comunque ci sono delle priorità che devono avere la precedenza rispetto al possesso, ad esempio legate ai primi quattro yama più importanti rispetto ad aparigraha.


YSII:31. Ete jati desa kala samayanavacchinnah sarvabhauma mahavratam
Queste cinque norme, che formano la prima grande regola dello yoga si applicano senza riguardo al ruolo sociale, al luogo, al tempo o alle circostanze.

Patanjali sembra aggiungere a margine: “non cercate scuse invocando principi sopra di voi”. Come dicevamo, l'infrazione può essere giustificata esclusivamente dal rispetto di uno dei principi più elevati, di cui la non violenza è quello più elevato di tutti, che non può essere mai infranto. Non è possibile trovare giustificazioni all'infrazione invocando “i tempi correnti”, ovvero affermare che oggigiorno ormai è anacronistico rispettare una certa prescrizione o che la società si è evoluta percui rubare è diventata la prassi oppure addurre una giustificazione legata al luogo in cui ci si trova, addossando agli usi e costumi di un certo paese le nostre infrazioni. Quindi non possiamo appellarci nemmeno alle circostanze contingenti, lo scoppio di una guerra o una catastrofe, oppure, molto importante, al ruolo che si occupa nella società. Patanjali indica questo concetto con termine “jati”, che fa riferimento alle caste, ovvero non è possibile giustificare la cattiva condotta adducendo come scusa la propria casta o condizione sociale, le caste a nostro giudizio esistono in ogni tempo e in ogni luogo. Banalizzando essere poveri non giustifica rubare, avere fame non giustifica mangiare carne, eccetera. Se siamo militari non siamo legittimati a fare violenza o uccidere a meno che il nostro operato non scongiuri violenze più grandi, non si deve eseguire incondizionatamente gli ordini, ma valutare i motivi delle azioni. Allo stesso modo è esecrabile, in ogni caso, svolgere compiti che comportano sofferenze evitabili a uomini o animali. Per questo motivo determinati mestieri, come il conciatore, in India sono svolti quasi esclusivamente da persone che hanno altri valori di riferimento, musulmani o persone fuori casta oppure che si sono rassegnate ad una vita grama, intoccabili.

YSII:32. Sauca samtosa tapa svadhyayesvara pranidhanani niyamah
Niyama, ovvero l'osservanza di norme di comportamento morali verso se stessi, si compone di cinque regole:
>sauca: purezza,
>santosa: appagamento,
>tapah: disciplina, pratica intensa,
>svadhyaya: studio di se stessi‚
>isvara: abbandono allo spirito superiore.

Yama e niyama sono dieci regole generali, la tentazione di fare un raffronto con i dieci comandamenti biblici potrebbe essere forte, ma, seppure alcuni punti siano simili, siamo in un campo completamente diverso, le dieci regole di Patanjali mirano alla crescita interiore, non sono proibizioni, sono passi progressivi in un percorso.

La purezza a cui rimanda il primo precetto che dobbiamo rispettare verso noi stessi, sauca, è la purezza di corpo, mente e spirito generata dal percorso attraverso i sette chakra ed al conseguente fluire dell'energia, coerentemente con l'interpretazione che avevamo fornito nei sutra precedenti (YSII:27). Questa purezza si raggiunge con la pratica di tutti gli otto passi dello yoga. Quindi, in questa chiave, il più importante precetto morale è di praticare. Senza pratica non c'e' yoga. Il termine può rimandare anche ad una purezza meno elevata, intesa come igiene personale e dei luoghi di pratica, in questo contesto di massimi sistemi sembra fuori argomento un tale riferimento, ma in India molti maestri citano il concetto di sauca in rapporto all'igene. In realtà questo è coerente con lo schema dei cinque corpi, da quello fisico a quello spirituale, propri del pensiero Indiano ed ayurvedico, cui sauca si riferisce. E' una purezza complessiva quella che ne risulta.

Il secondo punto è l'appagamento, o santosa, chiave di volta della cessazione dei desideri e cardine del distacco. Una persona più saggia di me diceva che la felicità è inversamente proporzionale alla differenza tra le mie aspettative e ciò che sono oppure ho. Se le mie aspettative sono poche, sarò molto felice, se non ho aspettative, la felicità tenderà all'infinito. Nella nostra cultura consumistica e di bisogni indotti, seppure nessuno di noi aspiri probabilmente a diventare un monaco, questo precetto è particolarmente prezioso. L'appagamento derivante da un desiderio materiale realizzato può essere molto inferiore all'angoscia che esso ha generato mentre era irrisolto, questo è un trucco della mente per mantenere il predominio e mantenerci nella sofferenza. Il distacco è la chiave, diceva Patanjali poco sopra. Questo principio può facilmente essere applicato a tutte le nostre azioni, dobbiamo agire con distacco verso i frutti che trarremo, senza diventare dipendenti da essi. Praticherò quindi perché la pratica mi giova sotto vari aspetti, ma senza diventare schiavo del risultato; che riesca o meno a compiere una posizione, a ritrovare la massima estasi nella meditazione, non ha importanza, è importante il tentativo; esisteranno sempre posizioni che faccio con facilità e posizioni che non riesco a fare, giornate in cui ricevo sensazioni migliori rispetto ad altre, il giusto percorso è per Patanjali, come abbiamo visto, mantenersi nella massima intensità. Il risultato finale è ininfluente e rischia di generare, come minimo, attaccamento, ma anche invidia, frustrazione, mancanza di entusiasmo e falsi obiettivi (confronta YS 1:30).

La disciplina o tapah, è, come abbiamo visto uno dei principi chiave della pratica, ovvero l'intensità. Letteralmente significa calore, il calore che brucia le impurità del corpo e della mente. Nel Rig Veda acquisirà il significato di austerità. Allo stesso modo sia lo studio di se stessi che l'abbandono allo spirito superiore o isvara sono concetti sui quali Patanjali già si è espresso. Come sappiamo la pratica deve essere adattata alle esigenze personali e consiste in un intenso e metodico esercizio lungo la via degli otto passi. In alcuni casi, proprio quando l'obiettivo finale di ricongiungimento con lo spirito superiore sembra precluso, al massimo dell'impegno, può essere necessario abbandonarsi.


YSII:33. Vitarka badhane prati paksa bhavanam
In caso di difficoltà causata da pensieri nocivi è possibile neutralizzarli con i pensieri opposti.

YSII:34. Vitarka himsadayah krta karitanumodita lobha krodha moha purvaka
mrdumadhyadhimatra duhkha jnananantaphala iti pratipaksa bhavanam
I pensieri nocivi sono la violenza e le altre cause di dolore. Possono essere compiuti direttamente, imposti con le parole o approvati mentalmente; provengono da sentimenti di cupidigia, ira e altre condizioni di confusione; possono essere deboli, medi o intensi, portano inevitabilmente dolore e sono causati dall'ignoranza. Perciò è necessario coltivare le opposte inclinazioni.

L'esercizio proposto da Patanjali può sembrare banale, ma non lo è. Per eliminare dalla mente i pensieri negativi o gli atteggiamenti che sappiamo arrecare sofferenza, è sufficiente concentrarsi sui pensieri o sui comportamenti opposti. Questo precetto ha moltissime applicazioni, come, ad esempio, soffermarsi sempre sulle caratteristiche positive delle persone o delle situazioni, oppure eliminare dalla mente un pensiero capendo che ci farà soffrire e che in quel momento abbiamo bisogno dell'atteggiamento opposto. La violenza e tutte le sue conseguenze, possono avere sfumature e gradazioni diverse, pensare ad una violenza verbale ad esempio, non è come compiere una violenza fisica, ma, comunque, quale sia la gradazione, l'unica certezza è che questi comportamenti causeranno sofferenza, seppure secondo una scala di sfumature crescenti.
Coltivando inclinazioni, pensieri e azioni positivi, avremo un effetto positivo sulla realtà che ci circonda. Siamo noi in ultima analisi gli artefici del nostro Universo.


YSII:35. Ahimsa pratisthayam tat sannidhau vaira tyagah
La solidità di aimsha, la non violenza, porterà l'abbandonano delle ostilità.

Vengono ora elencati gli effetti della pratica dei principi di yama e nyiama. Questo passaggio può essere inteso con un duplice significato. Il primo è che essendo noi stessi solidi nella qualità della non violenza indurremmo gli altri a non essere violenti. Il secondo è che se tutti praticassero la non violenza nessuno sarebbe ostile contro il prossimo perché verrebbe meno il motivo del contendere. Entrambe le interpretazioni mi sembrano coerenti, accettabili e partecipi dello stesso disegno che Patanjali sta tracciando tra precetti verso se stessi e verso la società.
Questo sutra è spesso invece tradotto con una terza sfumatura ovvero che la sola presenza dello yogin saldo in aimsha è sufficiente a disinnescare i conflitti, semanticamente correttissimo, ma, a giudizio di chi scrive, leggermente limitante. Il significato proposto è, crediamo, più generale e di senso comune.


YSII:36.Satya-pratisthayam kriya-phalasrayatvam
La solidità di satya, la verità, farà conseguire i frutti dell'azione senza agire.

Colui che è illuminato dalla verità riesce a trasmetterla agli altri rendendo inutile qualsiasi azione. La verità è il fine ultimo. Quando la verità illumina tutte le persone il fine è già raggiunto, non c'e' bisogno di ulteriori azioni. Analogamente a quanto detto relativamente al verso precedente, non interpretiamo questo sutra con la sfumatura che la sola presenza dello yogin basti a influenzare le situazioni senza agire, infondendo la verità. Questa interpretazione porta poi come estremizzazione ad affermare che la sola presenza del guru, del maestro, sia sufficiente ad illuminare i discepoli. Patanjali non crediamo voglia dire questo, e tale principio seppure esalti il ruolo del guru, limiterebbe il senso della pratica, in contrasto con quanto sin qui esposto.


YSII:37. Asteya pratisthayam sarva ratnopasthanam
La solidità di asteya, l'onestà, farà raggiungere la ricchezza.

YSII:38. Brahma carya pratisthayam virya labhah
La solidità di brahmacharya, la morigeratezza, porterà l'acquisizione di energia.

YSII:39. Aparigraha sthairye janma kathanta sambodhah
La solidità di aparigraha, possedere solo l'indispensabile, farà comprendere lo scopo dell'esistenza.

L'onestà è in realtà essa stessa una ricchezza, percui una volta raggiunta un'onestà senza tentennamenti o la comunione con le persone con le quali viviamo, saremo già ricchi. Allo stesso modo l'energia non si consegue soltanto bruciando, trasformando altre energie, ma anche risparmiando queste.

Sono state elencate quindi tutte e cinque le osservanze delle norme di comportamento etiche verso gli altri e capiamo meglio come mai queste siano passi successivi, partendo dalla prima, più importante, perché venendo a mancare cadono tutte le altre, piano piano si arriva allo scopo ultimo, al quale partecipano tutte le precedenti. Non possedere cose materiali, il non-possesso, il non attaccamento ai concetti di dolore e soprattutto piacere, porterà lo yogin a comprendere il senso dell'esistenza, ovvero la sapienza più elevata.

YSII:40. Saucat-svanga-jugupsa parair-asamsargah
Sauca, la purezza, farà raggiungere il distacco dalle cose materiali.

YSII:41. Sattva suddhi saumanasyaikagryendriya jayatma darsana yogyatvani
La purezza genera felicità, potere di concentrazione, controllo dei sensi, e capacità di realizzare il Sé.

YSII:42. Samtosad anuttama sukha labhah
Santosa, l'appagamento, genera la felicità suprema.

YSII:43. Kayendriya siddhir asuddhi ksayat tapasah
Tapah, la disciplina, elimina le impurità e porta la perfezione del corpo e dei sensi.

YSII:44. Svadhyayad-ista-devata-samprayogah
Svadhyaya, lo studio di se stessi‚ porta a percepire la propria parte spirituale individuale.

YSII:45. Samadhi siddhir isvara pranidhanat
Isvara, l'abbandono allo spirito superemo, porta all'unione dello spirito individuale con lo spirito superemo.

Patanjali elenca ora i frutti delle cinque osservanze delle norme morali verso se stessi. La pratica, il cui scopo è la purificazione, porterà al distacco dalle cose del mondo e la possibilità di accedere alle successive qualità. Il ragionamento è motlo lineare.

La pratica porta alla purificazione, si superano cioè gli elementi grossolani del proprio essere, si acquisisce sottigliezza, raffinatezza, si diviene “il tempio dell'essere surpemo” a cui ci si ricongiunge. Alcuni osservano giustamente che l'atteggiamento di Patanjali non è moralistico, egli non afferma di non nuocere al prossimo e di rispettare gli altri precetti perché esiste una legge superiore, ma solamente con lo scopo di purificare se stessi e trascendere il proprio spirito. La punizione è una vita infelice in questo mondo e le cattive conseguenze delle nostre azioni.

Avendo regolato le norme di comportamento verso noi stessi e verso gli altri, possiamo giungere all'obiettivo finale dello yoga ovvero il samadhi, il ricongiungimento dello spirito individuale con lo spirito superemo. Se questi fossero visti unicamente come passi successivi, non avremmo necessità di aggiungere altri passi alla nostra pratica. Come abbiamo detto più volte, sono passi successivi, ma si influenzano l'un l'altro favorendo il raggiungimento degli obiettivi. Le successive pratiche concorreranno al conseguimento di yama e niyama. E' stato dibattuto se gli spiriti illuminati potrebbero non avere necessità della pratica costituita dai successivi passi sulla via dell'ashtanga yoga, ma la questione non ci sembra di particolare interesse.


Rullo di tamburi... ecco che Patanjali arriva a parlarci delle asana (posizioni), della respirazione e della meditazione. Secondo molti questa è la parte più avvincente e poetica dell'intera opera. Questi aspetti specifici della pratica saranno ripresi dalle opere classiche successive, come ad esempio l' Hatha-Yoga Pradipika, la Gheranda Samhita e la Shiva Samhita, datate intorno al 1400 DC, approfonditi e trattati in modo più analitico. Poco dopo la redazione dell'Hatha-Yoga Pradipika si creeranno due scuole principali di yoga, il Raja Yoga, focalizzato in modo uniforme su tutti gli otto passi dei sutra di Patanjali e l'Hata Yoga, incentrato maggiormente su asana, pranayama e meditazione. Oggi giorno nel mondo, India compresa, l'impostazione dell'Hata Yoga è predominante. Stiamo parlando comunque di sfumature, tutte le scuole di yoga del presente e del passato raccomandano che si faccia ordine nella propria vita per dedicarsi alla pratica delle asana o alla meditazione, semplicemente perché, come sanno tutti i praticanti, una vita caotica e sregolata rende estremamente difficile già solamente sedere a gambe incrociate. A volte iniziare la pratica può però rappresentare uno stimolo per cominciare anche il processo di revisione del proprio comportamento. Come sempre i passi del percorso sono successivi, ma integrati e collegati. "Pratica e tutto il resto seguirà", la famosa frase del maestro Pattabhi Jois, è da interpretarsi secondo me in questa direzione.


Ma veniamo ora ai magnifici sutra che descrivono le asana:

YSII:46. sthira sukham asanam
Le asana, o posizioni, sono stabili e comode.

YSII:47. prayatna saithilya ananta samapatti bhyam
Questo avviene abbandonando ogni sforzo e unendosi con l'infinito.



Sappiamo dalla precedente esposizione del concetto di tapah, che la pratica deve essere intensa, ma a completamento del quadro d’insieme, si aggiunge ora che le asana devono mirare a diventare solide, intense e la loro esecuzione deve generare felicità nel cuore, armonia tra i vari corpi: fisico, energetico, spirituale, etc. Dalla forza nasce la solidità nell’esecuzione, dalla solidità la leggerezza e la gioia dell’animo. Una numerosa schiera di commentatori traduce questo sutra “le asana sono stabili e comode”. Questa è una forzatura. Sukha in tutta l’opera di patanjali viene sempre tradotto come gioia o felicità. Le asana generano felicità quando eseguite con la giusta intensità, è qui che inizia il ricongiungimento tra lo spirito individuale e lo spirito universale, lo scorrere dell’energia dai primi chakra fino l’ultimo nel quale avviene il samadhi, il ricongiungimento.
Allo stesso modo il primo significato di sthira è forza, la forza che dona la solidità, la radice è infatti la voce verbale stha, stare in piedi.
Se un’asana viene eseguita senza controllo e intensità nel corpo, nei corpi, senza apprezzare la forza vitale che scorre al nostro interno, perde il suo valore energetico. Savasana è l’unica posizione in cui si lascia completamente andare il controllo e l’intensità e non a caso si chiama posizione del cadavere, del corpo fisico privo di energia, in questa posizione infatti l’energia è trasferita al solo corpo spirituale.
Di contro non bisogna immaginare che Patanjali sia un ginnasta, intensità e forza sono concetti relativi a ciascun individuo e probabilmente anche a ciascun momento della pratica. La grazia del corpo permetta di raggiungere la grazia della mente con cui iniziare a intravedere la grazia dello spirito. Passo dopo passo sempre più in profondità dentro noi stessi, sempre più verso l'alto, verso percezioni sottili ed elevate. Le asana non devono indurre sofferenza al corpo, ma devono permettere di percepire tutto il corpo fisico, ogni nadi che l’attraversa, con l’energia che scorre al suo interno. Per un praticante di lunga data, nel pieno delle sue forze, questo può voler dire effettuare delle posizioni che alle altre persone sembrano acrobatiche o impossibili. Come dicevamo, Patanjali non cita nessuna posizione in particolare e questo è in linea con la sua opera, che è un manuale per maestri di yoga, i quali conoscono bene le posizioni, non un prontuario per praticanti. Oltre gli yoga sutra di Patanjali e la Bhagavad Gita, l’altra opera più importante per lo yoga moderno è probabilmente l’Hata Yoga Pradipika, opera più tarda, del tantrismo kashmiro, che ben conosce le altre due citate. Bene, questa opera riporta solamente 15 posizioni, la maggior parte delle quali impossibili se non si possiede un’esperienza pluriennale di pratica intensa: kukkutasana, uttana kurmasana, dhanurasan, mayurasana, padmasana, etc. La maggior parte delle asana non sono posizioni per il curioso appena arrivato, ai più sembrerebbero contorsioni.
Patanjali afferma inoltre, nel sutra successivo, che l’intensità e la gioia nell’esecuzione si realizzano abbandonando lo sforzo verso uno scopo,  prayatna, quindi presumibilmente, precedentemente l'intensità richiesta era dovuta in parte ad uno sforzo e ad uno scopo, che però si deve mirare ad abbandonare e a trascendere. Sukham è la forza che nasce dalla stabilità. Cercando una sintesi potremmo dire che la pratica deve andare verso l'intensità nella stabilità e mai verso la tensione. Secondo questo precetto si avrà un'evoluzione naturale verso posizioni che portano il corpo ad una maggiore intensità qualora si raggiunga una mancanza di intensità nelle stesse, ma mirando sempre ad una stabile e forte esecuzione. E' anche chiaro che in questa ottica, non esistono due persone che eseguiranno la stessa posizione allo stesso modo e che solamente noi stessi possiamo capire la giusta intensità.




L’intensità e la gioia nell’esecuzione si realizzano anche unendosi con ciò che non ha confini, entrando in uno stato di profonda contemplazione, samapatti, cioè quando si raggiunge uno stato di quiete meditativa durante la pratica fisica. Anzi, una pratica perfetta si compie eseguendo le asana in uno stato di contemplazione meditativa. Il concetto è molto bello. Come realizzare questo aspetto è chiaramente del tutto soggettivo, per alcuni si verificherà con una danza del corpo e del respiro, per altri con un’intensa immobilità nell'equilibrio e nella flessibilità, per altri anche solo sedendosi a gambe incrociate, in una delle molte e intense asana di questo tipo, non esiste una ricetta valida per tutti, ognuno dovrà trovare le sue posizioni e la sua pratica. La pratica fisica influenza la mente e lo spirito e a sua volta è da loro influenzata. L'abbandono e la quiete meditativa non si possono forzare, potrò ricercarle, facendo una serie di operazioni che so' portarmi in quella direzione, ma il viaggio è sempre unico, irripetibile e mai scontato. Credo che questo sia uno dei motivi per il quale si ama lo yoga. Qualcuno porta come esempio il sonno: non è possibile decidere di addormentarsi, ma liberando la mente, sdraiandosi e spegnendo la luce, con una buona dose di stanchezza, generalmente si riesce, ma spesso, ossessionandoci con il pensiero di dormire, otteniamo l'effetto opposto. Per la pratica è la stessa cosa, lasciamola accadere contemplando l'infinito. La mente è allenata a porre limiti, Patanjali suggerisce il percorso inverso, farla andare verso ciò che non ha limiti.



YSII:48. tato dvandva anabhighatai
Così cessa la sofferenza causata dalle coppie di opposti.

Le asana portano alla beatitudine generata dal superamento delle sensazioni e dei sentimenti, alla libertà che solo chi pratica ha sperimentato. Grazie alle asana si giunge ad un benessere assoluto oltre gli aspetti fisici o mentali, oltre le coppie di opposti, il caldo e il freddo o il piacevole e spiacevole, oltre i concetti di bene e male, rilasciando ogni sforzo e percependo l'infinito. Questo è il concetto che il Buddha Siddharta, che visse dopo Patanjali, indicherà come la via di mezzo, majhim nikaya. Il viaggio solitamente inizia dal corpo e pervade la mente e lo spirito, ma la distinzione è fittizia e il percorso soggettivo. Le posture fisiche sono il mezzo per giungere al distacco dalle cose materiali e capire che abbiamo in noi qualcosa di molto grande e molto elevato. Gli Yoga Sutra sono una perla di cui tutti gli yogin devono essere grati.

Un'osservazione che muovono spesso i sostenitori del Raja Yoga è quella che Patanjali non avrebbe dedicato molto spazio alle asana o almeno ne dedicherebbe meno rispetto l'importanza attribuita ad esse dagli "eretici" fautori dell'Hata Yoga. "Patanjali non cita nemmeno una posizione!" rincarano. Per bilanciare il discorso, basti ricordare che, secondo il mito, lo yoga è stato ideato da Shiva, dopo una meditazione di migliaia di anni e carpito da Matsyendra, il signore dei pesci, per donarlo agli uomini, quando il Dio lo stava insegnando a sua moglie Parvati. Lo yoga ideato da Shiva consta di otto milioni e mezzo di asana, o un po' meno a seconda delle versioni. Il mito vuole chiaramente dirci che le posizioni dello yoga sono tutte le posizioni che il corpo può assumere. Questo concetto unito a quanto affermato in precedenza da Patanjali, cioè che la pratica deve essere personale e secondo il modo che piace di più allo yogin, ci fa capire che un elenco di posizioni avrebbe poco senso all'interno di questa opera.


YSII:49. tasmin sati svasa apravasayor gati vicchedai pranayamah

Da qui, il passo successivo è l'espansione dell’energia, il pranayamah, che consiste nell'inspirare, nell'espirare e nell' interrompere il flusso.


YSII:50. bahya abhyantara stambha vettir dea kala saokhyabhi parideo dirgha sukemai
Quando si osserva attentamente la durata e la frequenza di inspirazione, espirazione o ritenzione, i respiri diventano sempre più prolungati e sottili.


YSII:51. bahya abhyantara visayaksepi caturthah
A questo punto si trascendono inspirazione, espirazione e ritenzione in una quarta tipologia di respirazione.


YSII:52. Tatah ksiyate prakasa avaranam
Quindi si affievolisce e scompare il velo che offusca la realtà.

Il respiro è il collegamento tra corpo, mente e spirito o, meglio, ciò che ci fa percepire l'unità di questi tre aspetti. Le posture solide, la mente focalizzata sull'infinito e la percezione dello spirito si fondono grazie al ritmo unisono impartito dal respiro. Il respiro riflette in modo estremamente puntuale le variazioni assunte dal corpo, le oscillazioni della mente e gli sguardi sullo spirito. Quale strumento migliore quindi per dominare tutta la nostra essenza? Per Patanjali il respiro rappresenta l'espansione della forza vitale, l'accesso e l'incameramento dell'energia che tutto pervade, il prana. Il termine prana (=energia) - yama (=espansione) si spinge quindi un poco oltre al concetto di controllo del respiro, come generalmente, per brevità, viene tradotto. Secondo i principi dell'ayurveda, alla base delle enunciazioni di Patanjali, ogni nostra cellula partecipa all'assunzione di energia mediante la respirazione, partecipando alla forza vitale dell'universo e ad una vibrazione che tutto pervade, ad un ritmo vibratorio inspirazione-espirazione, che fa pulsare tutto l'universo. Le scuole tantriche successive approfondiranno molto questo concetto che chiameranno spanda. Ma non vogliamo spingerci così oltre, basti sottolineare come e perché per il nostro autore, il respiro è il collegamento e il mezzo per controllare il nostro essere.
Anche in questo caso l'autore non fornisce indicazioni di dettaglio, ma ognuno troverà la migliore modalità per realizzare quanto indicato: qualcuno preferirà trovare il giusto ritmo del respiro in movimento durante asana più o meno intense, come alcune scuole himalayane o del Karnataka, altri seduti immobili in posizioni più meditative oppure assumendo posture che secondo le scuole ayurvediche incanalano i flussi energetici in modi particolari, i cosiddetti mudra, altri un insieme di tutto questo e così via.

Inspirare, espirare e sospendere per alcuni attimi il respiro tra l'uno e l'altro, è un gesto meccanico, portare consapevolezza su questo atto è già un passo importante. Lavorare sull'espansione ed il potenziamento del respiro è un punto cruciale dello yoga di Patanjali, ma di qualsiasi scuola di yoga. Il pranayama, gli esercizi di respirazione, o, meglio, gli esercizi di controllo dell'energia, portano a prolungare sempre dippiù le varie fasi della respirazione, rendendo lungo, flebile e uniforme ogni respiro. Molte opere successive indicheranno una serie di tecniche di condizionamento del respiro da molto semplici a molto complicate, ma come ormai abbiamo visto, a Patanjali non interessano i dettagli tecnici, lui indica la strada anche ai maestri, loro sapranno come seguirla e condividerla.

Il sutra 51 si presta ad una duplice interpretazione, riportiamo entrambe perché in qualche modo complementari e comunque degne di nota. Il quarto tipo di respiro, oltre inspirazione, espirazione e ritenzione, è da alcuni considerato il flusso continuo di puro prana, che trascende ed affianca inspirazione ed espirazione grossolani, che insorge quando si ha un livello di pratica avanzato, un modo di respirare distaccato, da osservatore, in un respiro che tutto unisce.  Secondo altri il quarto tipo di respirazione sono le apnee spontanee che insorgono talvolta in uno stato di coscienza molto elevato, nel quale comunque il prana fluisce in modo fluido attraverso il corpo. A giudizio di chi scrive queste due interpretazioni sono vere e valide entrambe. Molti praticanti di pranayama si focalizzano in modo spasmodico sulle apnee spontanee, ma secondo quanto appena detto, l'apnea spontanea è una forma di respiro pranico consapevole.

Infine, traducendo letteralmente, si dissolve il velo che copre la luce. Personalmente questo sutra mi ha aiutato a comprendere meglio cosa si intenda per illuminazione, cioè percepire senza l'oscuramento della falsa conoscenza e dei sensi. Senza mezzi termini Patanjali sta affermando che posture fisiche, asana, e espansione del respiro, pranayama, praticati congiuntamente alle norme di comportamento, yama e nyama, portano all'illuminazione. Diversamente dal Buddha, per lui non è questo l'ultimo gradino del percorso.


YSII:53. Dharanasu ca yogyata manata
Quindi la mente non ostacola più la capacità di concentrazione, Dharana.


YSII:54.Sva-visayasamprayoge citta-svarupanukara ivendriyanam pratyaharah
Pratyahara, il ritiro dei sensi, consiste nell'abilità di rinunciare alle percezioni esteriori.


YSII:55. Tatah parama vasyatendriyanam
Quindi si ha la completa padronanza su tutti i sensi esterni.


Ora la pratica dello yoga si sposta completamente all'interno di ognuno di noi. E' una semplificazione e in realtà il confine non esiste, ma questa semplificazione può aiutare a comprendere questo ulteriore passaggio. Con l'illuminazione dovuta all'eliminazione del velo che offusca la percezione della realtà, è divenuto possibile contemplare la nostra parte spirituale, il nostro spirito individuale e su di esso spostare la nostra concentrazione. A questo punto siamo completamente assorbiti verso il nostro interno, i sensi e ciò che è esteriore sono tagliati fuori. Pratyahara, che abbiamo sempre tradotto con il ritiro dei sensi, è interpretabile, in modo molto letterale, anche come "il ritorno alla sorgente", il ritorno verso lo spirito assoluto da cui il nostro spirito individuale proviene, di cui Patanjali ha trattato approfonditamente nel primo capitolo, si è preferita la prima traduzione perchè di più immediata comprensione. Questo è l'inizio del viaggio interiore dello spirito individuale verso lo spirito assoluto, che terminerà con il samadhi ovvero il ricongiungimento dei due. Le persone o i santi uomini che stanno sedute a gambe incrociate per ore, per giorni, per anni, sono immerse in questo viaggio che inizia con il rivolgimento verso l'interno e il distacco dai sensi. Meglio ancora, che inizia comportandosi con regolatezza, praticando le asana e uniformando il respiro alla vibrazione dell'universo per poi giungere dentro ognuno di noi. In realtà non c'è più contrapposizione tra interno ed esterno, ogni cosa è al suo posto e si prosegue il cammino con quello che per semplicità espositiva potremo considerare come una fase successiva, approfondita da Patanjali nella prima parte del terzo libro.



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