Yoga Sutra: la mente, la realtà e la liberazione, IIa parte IV libro [YSIIII:14-22]
dicembre 05, 2017L'ultima parte del quarto libro degli Yoga Sutra di Patanjali, conclusivo dell'opera, costituisce la summa del suo pensiero e forse la parte più bella e importante dell’intero testo. Si è detta la stessa cosa per ogni capitolo e gruppo di sutra, è vero, ma il genio di Patanjali e la bellezza dello yoga da lui descritto continuano a emozionarci ancora, dopo la non trascurabile cifra di tre millenni trascorsi. Si può osservare che l'uomo è uno e da quando è venuto al mondo si è interrogato su chi fosse, sul perché esistesse e su quale fosse il significato di tutto questo. L'uomo è per eccellenza colui che attribuisce significato al mondo circostante: dall'arte al linguaggio, dalla filosofia alla religione, ma proprio per questo tende a sfuggirgli il significato ultimo e ha quindi cercato infinite strade che lo potessero restituire. L'approccio di questo capitolo è assimilabile ai grandi sistemi filosofici, seppure con proprie caratteristiche uniche, tra cui quella forse più importante di descrivere una scienza empirica, cioè non teorica, ma pratica. Tra gli otto passi che compongono lo yoga, non è prevista nessuna attività speculativa, ma solamente la pratica costante. Patanjali scrive per i maestri più che per i discepoli, per chi deve perpetrare il messaggio e per questo motivo si dilunga in questioni filosofiche, altrimenti estranee allo yoga. Patanjali ci dice che la pratica porta gli yogin a sentire la perfetta unione tra mente, corpo e spirito, ma il percorso e i risultati saranno soggettivi. Il percorso è precluso solamente a chi non prova (o a chi è pigro, come era solito ripetere Pattabhi Jois). La grandezza e unicità dello yoga consiste, secondo chi scrive, nell'iniziare non con grandi proclami ma con piccoli passi, con un po' di allungamento muscolare a terra. “Inizia a praticare, tutto il resto seguirà” aggiungeva il grande guruji. Nessuno può prevedere esattamente quale sarà il viaggio, né dove condurrà, ma a chi volesse, con tenacia e costanza, perseverare in un’intensa pratica (tapah come dice il nostro autore), esso potrebbe riservare grandi sorprese e offrire una fonte di tranquilla gioia difficilmente eguagliabile, una ricerca appassionante che dura tutta la vita. E non sono parole vuote. Scusate l'esternazione, forse fuori luogo, ma a parlare è il mio amore per lo yoga. Ora lasciamo invece che a parlare sia Patanjali.
YSIIII:14. pariṇama ikatvat vastu tattvam
La qualità di ogni oggetto è data dall'unicità della sua reale composizione.
YSIIII:15. vastusamye citta bhedat tayorvibhaktah panthah
Lo stesso oggetto è visto in modi diversi da menti diverse.
YSIIII:16. na caika citta tantram cedvastu tad apramaṇakam tada kim syat
L'esistenza di un oggetto non dipende dalla percezione di un'unica mente.
YSIIII:17. tad uparaga apeksitvat cittasya vastu jnatajnatam
Un oggetto è noto oppure è ignoto a seconda che la mente lo percepisca oppure no.
In questi quattro sutra Patanjali spiega cos’è la realtà e come noi ci mettiamo in relazione con essa. Quando scrive “oggetto” o “cosa”, intende oggetto della nostra attenzione e del nostro pensiero, in contrapposizione a soggetto, ovvero noi che li osserviamo. Non necessariamente si tratta di oggetti fisici, ma anche di sentimenti e spirito, per esempio. L'autore non sta parlando degli elementi della tavola periodica né di atomi ed elettroni (è questa l'interpretazione di Osho), ma come potrebbe?
Il suo discorso è talmente lineare, chiaro e moderno che sembra scontato:
Ogni cosa su cui poniamo l’attenzione esiste indipendentemente da noi, cioè, anche se noi non la notassimo, starebbe lì. La sua esistenza dipende dal fatto di avere una composizione reale che prescinde dal contesto e non dal fatto che noi la scopriamo e, allo stesso modo, potremmo ingannarci e ritenere reale una cosa che non lo è e non esiste. Il fatto che noi conosciamo o non conosciamo un oggetto, lo rende semplicemente a noi noto o ignoto. Ognuno di noi percepisce la realtà e le cose che la compongono in un modo differente, prescindendo dai reali elementi costitutivi.
Le esperienze di diverse persone, il loro carattere intimo, la loro mente, possono offrire un significato completamente diverso per i medesimi oggetti.
Patanjali prende fermamente le distanze da tutta la linea di pensiero che ritiene la realtà, in ultima analisi, generazione o mero inganno della mente. Per assurdo, il mondo esisterebbe anche se non vi fosse nessuno a osservarlo. L'interpretazione della realtà da parte della mente è però soggettiva. Successivamente chiarirà che la realtà oggettiva deve essere percepita andando oltre la mente, che inganna. La realtà non è il sogno della nostra mente e quando meditiamo, escludendo la mente, ne abbiamo la prova: quella è la realtà, priva di inganni.
Che messaggio magnifico!
YSIIII:18. sada jnatas citta vrttayas tat prabhoh purusasyaparinamitvat
Il vero se stessi, può osservare le oscillazioni della mente, perché esso è lo spirito immutabile.
YSIIII:19. na tat svabhasam drsyatvat
La mente non brilla di luce propria, dal momento che è essa stessa percepibile.
Un minuto di raccoglimento sul significato di queste parole in relazione alla pratica che ognuno di noi svolge: il vero se stesso può osservare le oscillazioni della mente, perché esso è spirito immutabile. La mente non brilla di luce propria, dal momento che è essa stessa percepibile.
Dopo un'ora e mezza di estenuante pratica, completa di ogni elemento, coerentemente con quanto descritto da Patanjali nel secondo libro, dopo anni di esperienza giornaliera, seduti a gambe incrociate, alla fine, banalmente, cosa percepiamo? Che la mente può essere controllata e osservata come fosse una nostra mano. Chi osserva la mente? Noi stessi, nella nostra parte più intima, il nostro spirito individuale, drasthu o purusha che dir si voglia. L'autore aveva già dichiarato questo concetto all'inizio dell'opera, ma in quel contesto poteva sembrare un'affermazione un po’ dogmatica perché non avevamo gli strumenti per afferrarne il significato e infatti, dopo aver compiuto tutto il percorso, egli vi ritorna. Nel secondo e terzo sutra del primo libro leggevamo: “Lo Yoga consiste nell'arresto delle oscillazioni della mente, così acquisiamo la consapevolezza dello spirito”. Il concetto si spinge oltre: Patanjali afferma che un praticante consapevole è in grado di osservare in realtà la mente mentre oscilla, perché anche essa è una componente inprescindibile del nostro spirito. Il vero se stesso si compone di spirito immutabile, mente e corpo, differenti manifestazioni di un'unico essere. La vita ci porta a separare queste entità, la pratica a riunirle.
YSIIII:20. eka samaye cobhaya an avadharaṇam
E' impossibile per la mente conoscere simultaneamente il soggetto che percepisce e l'oggetto che viene percepito.
YSIIII:21. cittantara drsye buddhi buddheh atiprasangah smrti samkarasca
Se si desse per assunto che un secondo tipo di mente illumini la prima, si dovrebbe anche assumere una cognizione della cognizione, all'infinito, e la confusione sarebbe completa.
E'
difficile rendere con parole altrettanto semplici questo concetto in
realtà molto lineare:
quando la mente è impegnata, vediamo solo l'oggetto che la impegna. E' il medesimo concetto espresso nel quarto sutra del primo libro: quando non si arrestano le oscillazioni della mente, essa assume la forma delle oscillazioni stesse. Se penso a cosa mangerò per cena o che ho freddo, tutta la mia mente sarà pervasa da quel pensiero. Per la stessa ragione potremmo dire che è praticamente impossibile formulare due pensieri evoluti in maniera esattamente contemporanea, perché la mente è pervasa dall'uno o dall'altro, o meglio in quel momento essa è quel pensiero. Ma che succede quando i pensieri si fermano? Quando le oscillazioni della mente si arrestano? Percepiamo ciò che osserva e non ciò che viene osservato, ovvero lo spirito che osserva la mente stessa, e ci accorgiamo che una è manifestazione dell'altro.
Possiamo spingerci oltre e affermare che la mente e il nostro spirito sono un'unico soggetto, la distinzione è puramente funzionale alla comprensione del discorso e la parte “spirito” di questo unico soggetto si palesa quando si spengono i pensieri.
quando la mente è impegnata, vediamo solo l'oggetto che la impegna. E' il medesimo concetto espresso nel quarto sutra del primo libro: quando non si arrestano le oscillazioni della mente, essa assume la forma delle oscillazioni stesse. Se penso a cosa mangerò per cena o che ho freddo, tutta la mia mente sarà pervasa da quel pensiero. Per la stessa ragione potremmo dire che è praticamente impossibile formulare due pensieri evoluti in maniera esattamente contemporanea, perché la mente è pervasa dall'uno o dall'altro, o meglio in quel momento essa è quel pensiero. Ma che succede quando i pensieri si fermano? Quando le oscillazioni della mente si arrestano? Percepiamo ciò che osserva e non ciò che viene osservato, ovvero lo spirito che osserva la mente stessa, e ci accorgiamo che una è manifestazione dell'altro.
Possiamo spingerci oltre e affermare che la mente e il nostro spirito sono un'unico soggetto, la distinzione è puramente funzionale alla comprensione del discorso e la parte “spirito” di questo unico soggetto si palesa quando si spengono i pensieri.
Alcune
scuole filosofiche contemporanee di Patanjali, per spiegare il fatto
che la mente potesse essere osservata e quindi superare l'impasse su
chi fosse l'osservatore, introducevano il concetto di una seconda
mente che osserva la prima ma, come giustamente fa notare il nostro
autore, se entriamo nel circolo che la prima mente osserva la seconda
dovremmo assumere il concetto che la seconda è osservata da una
terza e così via, all'infinito, senza risolvere di fatto la
questione. Concordiamo con Patanjali, questa spiegazione confonde.
Esiste poi un'altra scuola che sostiene che la prima mente osserva la
seconda e la seconda la prima in un gioco schizofrenico di specchi, e
anche questa risposta, più che chiarire, rimanda soltanto la
soluzione ultima del problema di chi sia il testimone ultimo della
realtà, problema cui Patanjali offre un ulteriore tassello nel
prossimo sutra.
YSIIII:22. citer aprati samkramayah tad akara apattau svabuddhi sam vedanam
La conoscenza della propria natura, si consegue allorché la consapevolezza assume quella stabilità per cui è immodificabile.
Come ormai siamo abituati, il senso dei sutra è spesso concatenato uno con il successivo, come in questo caso, in cui il soggetto è il sutra precedente: la percezione del proprio io, ovvero il fatto che noi siamo spirito, si riesce a raggiungere quando si interrompono le oscillazioni della mente in modo stabile per un periodo significativo, quindi in relazione alla pratica, quando non si salta più da uno stadio all'altro. Il ritiro dei sensi precedeva la concentrazione per poi arrivare alla meditazione e al samadhi, o ricongiungimento con lo spirito assoluto. La conoscenza di essere in primo luogo spirito si consegue quando si riesce a rimanere nella condizione di samadhi in modo protratto; questo stato infatti, sembra suggerire Patanjali, può essere portato anche al di fuori della pratica. Il soggetto testimone della realtà è uno ed è il nostro spirito. Esso è autoconsistente, è come una candela che illumina la stanza, non dobbiamo supporre l'esistenza di un'ulteriore luce per osservare la candela stessa. La luce illumina anche se stessa. Svabuddhi sam vedanam: la coscienza più profonda è immodificabile, è auto-illuminante. Ecco che siamo arrivati alla vera risposta, senza rimandarla all'infinito.
Nei sutra conclusivi, si entrerà ancora più in profondità su quali siano le caratteristiche della mente e dello spirito che donano la libertà a colui che pratica yoga e giunge al massimo livello.
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