Yoga Sutra: il grande finale, IIIa parte IV° libro
dicembre 22, 2017Gli ultimi dieci Sutra dell'opera di Patanjali raccontano come il corpo , la mente e lo spirito raggiungano la liberazione grazie allo yoga. Liberazione dai desideri effimeri, dal falso conoscere, la liberazione dalla sofferenza del vivere e dalle conseguenze delle proprie azioni. Quando ogni azione è guidata dai principi dello yoga illustrati nel secondo libro (non violenza ,verità , onestà, morigeratezza, frugalità; purezza, appagamento, pratica intensa, studio di sè‚ abbandono allo spirito assoluto); quando ogni azione non ha più nessuno scopo utilitaristico, né di raggiungere il bene né di raggiungere il male; allora le azioni compiute non hanno più conseguenze che possano toccare il nostro cuore in questa vita; si raggiunge quindi la pace e la liberazione. Il percorso illustrato da Patanjali è stato lungo, ma ora che è possibile osservarlo nella sua interezza, colpisce in modo particolare l’organicità del pensiero. Egli ha descritto lo yoga compiendo un percorso non lineare, ma molto efficace: ha iniziato nel primo libro definendo il termine stesso di yoga, come la cessazione delle oscillazioni della mente e il perché dell’importanza di questa condizione per il ricongiungimento con lo spirito assoluto. Ha poi proseguito indicando passo per passo il sentiero da compiere. Il secondo libro è senza dubbio la parte fondamentale dell’opera, il manuale per come arrivare all’illuminazione, alla consapevolezza, alla felicità o alla liberazione che dir si voglia. E' il manuale dello yoga. Il secondo libro è la luce che indica la strada da seguire. Nel terzo capitolo Patanjali ha spiegato dove porta questa pratica, quali sono gli effetti di tutti questi sforzi fisici e mentali, gli effetti di questa pratica metodica e intensa. Infine l’autore ci mostra il quadro d'insieme o, meglio, ci spiega che la pratica non deve diventare fine a se stessa, ma all’ultimo va ababndonato anche l’attaccamento alla pratica e ai bellissimi doni che questa regala, in favore di una totale liberazione da ciò che è terreno e materiale, in favore di una pace completa ed assoluta. Questo ultimo capitolo è in generale quello preferito dagli studiosi, dai filosofi, ma anche dagli asceti, che qui trovano un’analisi delle grandi questioni della vita. Alcuni maestri indiani che ho conosciuto, bramini che avevano dedicato l’intera vita allo yoga, guardavano con sospetto e forse anche con disinteresse al quarto libro, per motivi differenti. Taluni mi spiegavano che erano felici nella loro pratica quotidiana, nell’unione della mente e del corpo e nell'estasi dello spirito e che altro non gli interessava. La quotidianità dei riti dei bramini e la visione del mondo induista, giocano forse un ruolo importante in questa scelta. Altri ritenevano che gli argomenti riguardanti le massime sfere dello spirito, non possano essere concettualizzati o, meno che mai, scritte, ma che siano solamente nel proprio animo e che, anzi, concettualizzarle avrebbe nuociuto alla loro esperienza perché avrebbe creato un sentiero non più completamente libero, ma preordinato o comunque con delle aspettative di un certo tipo. Immagino che queste stesse osservazioni potessero essere rivolte all’autore anche dai suoi contemporanei, siamo quindi estremamente grati a Patanjali per aver formalizzato qualcosa che i più forse avrebbero lasciato segreta, una scienza per iniziati, al massimo da tramandare da maestro a discepolo.
YSIIII:23. drastr drsy opa raktam cittam sarva artham
Allorché la mente è in grado di comprendere il soggetto che conosce e l'oggetto conosciuto, essa comprende tutto.
YSIIII:24. tad asankhyeya vasanabhih citram api parartham samhatya karitvat
La mente, anche se perturbata da innumerevoli desideri, ha un altro scopo, vale a dire stabilire una connessione tra il mondo esterno e il vero sé.
Il significato ultimo di questo sutra è più semplice di quanto sembri. Nei sutra precedenti erano stati illustrati due concetti di primaria importanza. In primo luogo veniva esaminato come l'eliminazione delle oscillazioni della mente permettesse di osservare la mente stessa e di comprendere che l'osservatore, il soggetto che conosce, fosse lo spirito individuale. In un passaggio successivo Patanjali rivelava che spirito e mente sfossero in realtà una unica entità che insieme al corpo costituisce noi stessi, ovvero il soggetto che osserva la realtà. In secondo luogo diceva che realtà fosse oggettiva, ma che ogni differente persona ne riceveva una impressione differente a causa della perturbazione della mente. Quando cessano le oscillazioni della mente, riusciamo a vedere la realtà nella sua vera forma, attraverso una intuizione dello spirito, come quando siamo immersi in una meditazione profonda.
Ora si sommano questi due concetti, affermando che avendo portato calma ed illuminazione nella mente, conosciamo realmente noi stessi e il nostro spirito, ma anche il mondo che ci circonda.
La mente è un ponte tra noi stessi e il mondo, per usare la metafora di un grande autore, e quando posta nella giusta condizione, comprende ogni cosa. La realtà ha due facce: il mondo interno a noi ed il mondo esterno a noi, lo yoga permette di comprendere entrambe ed avvicinare il praticante alla liberazione dalla sofferenza e dall'illusione.
La mente è un organo di senso, questo punto di vista è particolarmente importante, come avevamo detto in precedenza. La pratica allena a comprendere come la mente si possa muovere ed osservare alla stregua di una mano; ora Patanjali ritorna su questo concetto affermando che la mente ha lo scopo di trasferirci informazioni dal mondo esterno. Quando è perturbata e non ne abbiamo la giusta consapevolezza, queste informazioni sono inganni, come i desideri inutili e sbagliati. Per tornare alla metafora precedente delle mani, quando la mente è perturbata, si agisce come chi al buio agiti inutilmente le mani davanti a sé, invece di procedere toccando ed analizzando. Ma ristabilita la quiete le mani possono essere utilizzate in vece degli occhi. La mente, ristabilita la quiete, può essere utilizzata come strumento conoscitivo del vero sé, dello spirito. A questo punto la mente e lo spirito, ed il corpo aggiungeremo noi facendo riferimento a quanto affermato nei libri precedenti, lavorano all'unisono, si ricongiungono, c'è unione, c'è armonia, c'è yoga nel suo significato sanscrito di aggiogamento e unione. Il fine ultimo dello yoga è vicino. La liberazione è vicina. In questo, il pensiero indiano e lo yoga come sua alta manifestazione, si differenziano in modo fondamentale dai due punti di vista principali dell'Occidente, quello materialistico e quello religioso. Da una parte il corpo non è visto come la sede inutile dello spirito, ma al contrario ne è la manifestazione e attraverso di esso prendiamo consapevolezza dettagliata dello spirito stesso. Dal lato opposto, l'uomo non è immaginato come la sola unione di carne, sangue e un cervello pensante, non siamo ciò che pensiamo, anzi proprio quando smettiamo di pensare cogliamo la nostra essenza più alta e spirituale.
YSIIII:25. visesa darsinah atmabhava bhavana ni vrttih
La mente che comprende tutto arresta i desideri riflessi in noi stessi.
YSIIII:26. tada viveka ninnam kaivalya prag bharam chittam
La mente rafforzata dal discernimento, gravita verso la liberazione.
Essendo la mente l'organo ultimo di percezione della realtà, quando illuminata, restituisce la giusta comprensione del mondo e la giusta comprensione di se stessi e dello spirito in noi. A questo punto non ci possono essere desideri. I desideri sono frutto di una cattiva interpretazione della realtà: immagino che un'azione o un evento possano avere conseguenze positive nei miei confronti, non rendendomi conto che l'aspettativa e l'epilogo, paradossalmente qualunque esso sia, positivo o negativo, potranno portare esclusivamente sofferenza. L'ultimo desiderio è quello di vivere e la paura della morte che ne consegue, la caduta dell'ultimo desiderio è la cessazione della paura di morire, la caduta del Sè.
YSIIII:27. tach chhidreshu pratyaya antarani sanskarebhyah
La condizione raggiunta è perturbata dai preconcetti sorti grazie alla forza delle impressioni precedenti.
YSIIII:28. hanam esam klesavad uktam
Questi pensieri possono essere eliminati come descritto in precedenza (ovvero riconducendo la mente al giusto discernimento e abbandonando i desideri).
Inizialmente, anche il saggio illuminato è soggetto a possibili regressioni. Una vita passata nel mondo dell'illusione, dell'attaccamento e dei desideri, ha generato abitudini molto radicate. Per estirparle in via definitiva bisogna agire come detto. Questa affermazione è un pochino ermetica lo ammettimo. Infatti tutte le traduzioni offrono una interpretazione differente del termine uktam, “come descritto in precedenza”, cercando giustamente di restituirne il significato ultimo, di spiegare cosa si sia detto in precedenza. Secondo chi scrive il termine si riferisce a due ambiti: in primo luogo a quanto detto nei sutra immediatamente precedenti riguardo alla mente ed alla capacità di discernere il vero io e il vero mondo reale, quindi, in buona sostanza, riconducendo la mente al giusto modo di pensare ed il conseguente abbandono dei desideri. In secondo luogo si riferisce a quanto detto in tutta l'opera precedente, a tutto il viaggio che costituisce lo yoga di Patanjali, che ha portato il praticante fino a questo punto.
YSIIII:29. prasamkhyane pyakusidasya sarvatha vivekakhyateh dharma meghas samadhih
Chi riesce ad essere distaccato anche dagli stati di consapevolezza più esaltanti, discernendo sempre e in ogni circostanza, entra nello stato finale di integrazione inmperturbabile con lo spirito assoluto, ovvero dharma meghah samadhi.
Il distacco va esercitato anche verso la pratica, quindi non bisogna praticare pensando all'ottenimento di un risultato. Questo concetto era già stato espresso da Patanjali. L'ultimo passo della pratica è il non praticare, sembra una contraddizione o un gioco per eruditi, ma non lo è. Ad un livello più basso, potremmo aver sperimentato anche noi l’ ossessione verso la pratica, attaccamento e desiderio verso, ad esempio, la nostra pratica quotidiana del mattino. Saremmo stati male se non avessimo praticato. Questo è un tipico esempio di sofferenza causata da un desiderio, sia pure elevato quanto vogliamo. Allo stesso modo potremmo esserci sentiti insoddisfatti dopo una pratica nella quale non avessimo sentito le stesse sensazioni di una precedente più esaltante. Questo ne è un'altro esempio. Ad un livello più alto lo stato finale di libertà della mente e dello spirito è mantenuto anche senza la pratica o comunque con una pratica disinteressata dai risultati raggiunti. Si praticherà come costume di vita, non per ottenere qualcosa in cambio. Si giunge quindi all'illuminazione, quando i veli del mondo cadono nel ricongiungimento con lo spirito assoluto. Il concetto di dharma meghah samadhi offre il fianco a varie interpretazioni, è il livello più alto della pratica, non fa una grande differenza a nostro giudizio tradurlo unione spirituale con la legge cosmica, dissoluzione delle impurità e delle distorsioni oppure, come abbiamo fatto, integrazione imperturbabile con lo spirito assoluto, che comunque ci sembra più in linea con il significato di samadhi portato avanti sin qui nell'opera.
YSIIII:30 tatah klesa karma nivrttih
Quindi segue la liberazione da ogni sofferenza e da ogni karma.
Ad un primo livello di interpretazione, quando ogni azione non ha più nessuno scopo utilitaristico, né di raggiungere il bene né di raggiungere il male, non ha più nemmeno alcuna conseguenza che possa toccare il nostro cuore in questa vita; si raggiunge quindi la pace e la liberazione. Non possiamo però ignorare che esista anche un livello interpretativo più profondo in quanto sia i buddisti che gli induisti ritengono che , semplificando un po’, questo ultimo gradino, la perfetta illuminazione conseguente in ultima istanza l'abbandono definitivo dei desideri e della paura della morte, collochi il soggetto al di fuori della legge del karma: sono disinteressato al frutto delle mie azioni perché non agisco per desiderio, sono illuminato e sono quindi al di fuori del ciclo delle reincarnazioni, nell'ultimo traguardo per la felicità e la pace assoluti ed eterni. Questa è la liberazione, una liberazione che avviene in primo luogo in terra ma che si propaga nell’eternità. [NB in talune opere i sutra 29 e 30 sono invertiti di numero]
YSIIII:31. tada sarva avarana malapetasya jnanasya anantyat jneyamalpam
Una volta che tutti i veli e le imperfezioni che nascondono la verità sono stati spazzati via, l'intuizione è sconfinata e poco resta ancora da conoscere.
YSIIII:32. tatah krtarthanam parinama krama samaptir gunanam
Quindi comincia a crollare il flusso continuo della realtà, trasformata dalle qualità fondamentali della natura, realizzandosi così la vera missione della coscienza.
YSIIII:33. ksana pratiyogi parinama aparanta nirgrahyah kramah
Infatti si può vedere che il flusso è in realtà una serie di eventi discreti, ciascuno corrispondente al più piccolo istante di tempo, in cui una forma diventa un'altra.
Lo yogi si pone fuori dal flusso del tempo. Il tempo è la trasformazione della realtà naturale che ci circonda, una realtà che se non cambiasse, sarebbe immobile e non avrebbe il concetto di tempo. Analogamente a quanto fatto dai filosofi greci, in particolare da Zenone di Elea, suo contemporaneo storico, Patanjali osserva che il tempo può essere scomposto in una successione di attimi immobili, di cui ha prontezza colui che percepisce la vera realtà, potendo prolungare all’infinito un singolo attimo. Il praticante illuminato ricongiungendosi con lo spirito assoluto ferma il tempo e si pone nella stessa dimensione dello spirito, atemporale. Il concetto di tempo è inoltre molto esteso e importante per gli Induisti. Noi siamo soliti ragionare in termini di una vita, o al massimo in termini di tempo storico, tre o quattromila anni, contrapponendo questo all’eternità. Gli induisti ragionano invece in termini di cicli molto più lunghi. Non vogliamo ripercorrere la cosmologia indiana, ma basti pensare che sulla terra si susseguono quattro Yuga, o ere, per un totale di circa quattro milioni di anni, che si ripetono a formare un kalpa o giorno di Brahma, di circa quattro miliardi e mezzo di anni (come l’età della terra stimata dagli scienziati), al termine dei quali il mondo viene distrutto da Shiva e ricreato da capo. Essere incarnati nel tempo del cambiamento, per un’anima che ciclicamente ritorna nel mondo ha quindi conseguenze che hanno una durata oltre quella che generalmente siamo abituati a considerare, la liberazione che ne deriva acquisice connotati particolari e avvicina il soggetto all’unico spirito che tutto pervade, imperituro o, meglio, l’Imperituro di cui parla la Gita. Shiva o la trinità Bramha, Shiva e Visnù o altre visioni secondo i molti rami dell’Induismo.
Il fine della presa di coscienza è quello di far crollare il tempo e l’alternarsi delle ere, ponendo il soggetto sul piano atemporale dello spirito assoluto.
YSIIII:34. purusa artha sunyanam gunanam pratiprasavah kaivalyam svarupa pratistha va citisaktiriti
La liberazione, kaivalya, compie quindi l'obiettivo del vero sé, o purusha: la materia e la natura, cioè i guna, sono superati. Viene quindi rivelata la vera sostanza dell'essere e la forza della conoscenza assoluta.
Lo spirito che abbiamo dentro di noi è della stessa sostanza dello spirito che tutto pervade ed ha quindi già connaturato in sé il ricongiungimento finale. La conoscenza assoluta regala la liberazione in questo ricongiungimento. L'uomo non fa parte della natura, ma di chi l'ha creata.
Il viaggio è giunto alla fine, non stupisce di essere arrivati così in alto, l’autore ci aveva avvisato che le esperienze sarebbero state oltre l’ordinario e gli obiettivi massimi e totalizzanti.
Sutra significa letteralmente "filo". Speriamo di aver reso almeno il “filo” del discorso, restituendo organicità all’opera, dal primo all’ultimo verso, con un discorso coerente. Utilizzando una metafora di un’autore più illuminato di chi scrive (Jaggi Vasudev) potremmo dire che ogni sutra è però come una formula. Chiunque conosca l'alfabeto può scrivere "E = mc²". Ma dietro questa piccola formula c'è un'enorme quantità di scienza che può essere compresa su vari livelli. Ogni formula, ogni sutra, può restituire risultati sensibilmente diversi e la grande bellezza degli Yoga Sutra è proprio questa, cambiando il contesto nel quale vengono tradotti o analizzati il risultato cambia leggermente. E non pensiate che un lavoro esegetico scrupoloso di comparazione sia quello che porta più lontano. Forse proprio le versioni più incoerenti e criptiche che mi sono capitate tra le mani, erano quelle che analizzavano l’evoluzione delle interpretazioni e traduzioni dal sanscrito nel corso degli ultimi secoli. Spesso a seconda della scuola di apparteneza dell’autore il significato viene forzato per essere coerente con tale scuola e comparando e analizzando tutte queste versioni non aumenta la nostra capacità di comprensione ultima. Analogamente anche chi abbia cercato di ripercorrere filologicamente la storia dei principali termini sanscriti utilizzati nell’opera ha spesso fallito poi nel ricondurre al significato originario, d’insieme, finale. Chi afferma infine che il significato sia chiaro e univoco spesso afferma anche che lui stesso sia il solo ad averlo afferrato. La nostra posizione è molto distante da queste dichiarazioni e, come dicevamo, non rivendichiamo di aver compreso il significato ultimo e assoluto di un’opera tanto intima e profonda, ma almeno di esserci potuti creare una nostra interpretazione onesta, perché non viziata da uno scopo pre-esistente o da un fine e fedele il più possibile al significato stretto dei termini sanscriti, e, ci sembra, organicamente coerente dall’inizio alla fine.
Ci piace però completare il discorso ricordando che Patanjali è considerato da intere generazioni di praticanti, di guru, di sacerdoti, di luminari e di filosofi, anche enormenmente lontani nello spazio e nel tempo tra loro, uno dei più grandi uomini che ha camminato su questo pianeta, per averci consegnato l’arte della quale può essere considerato quantomeno il padre putativo, lo yoga.
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